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PAKISTAN

Primo caso di assassinio per "blasfemia" nell'era Khan

La “legge nera” sulla blasfemia ha mietuto un’altra vittima in Pakistan. Ad essere assassinato, senza neppure subire un processo, è un giovane artista, Qutub Rind. Dopo una lite è stato barbaramente ucciso. Gli assassini si difendono dietro la foglia di fico della "blasfemia", buona per ogni pretesto. Che farà in merito il prossimo governo?

Libertà religiosa 07_08_2018
Qutub Rind

La “legge nera” sulla blasfemia ha mietuto un’altra vittima in Pakistan. Ad essere assassinato, senza neppure subire un processo, è un giovane artista di nome Qutub Rind. Il 17 luglio scorso era a Lahore per partecipare a un’esposizione quando, dopo una lite con il proprietario dell’appartamento che aveva affittato, è stato assassinato da due uomini, che lo hanno lanciato dal terzo piano dopo avergli rotto gambe e braccia. Gli aggressori si sono difesi affermando che avesse bestemmiato nel corso di una lite sulla religione. La notizia è stata confermata solo ieri. I familiari del ragazzo affermano che fosse un musulmano devoto e che la “blasfemia” sia solo una copertura. Come pare essere, in effetti. E come è, nella stragrande maggioranza dei casi.

Qutub Rind, di Jacobabad, era diplomato con successo alla National College of Arts di Lahore. Era un artista impegnato, i suoi quadri, iperrealisti, dipinti a penna, esprimevano critiche al sistema tradizionale castale e alle guerre tribali. Non ha mai parlato contro l’islam. Secondo i suoi parenti, pregava cinque volte al giorno. Dopo il suo barbaro assassinio, anche la classe colta della società civile pakistana, le locali celebrities, è scesa in campo con una campagna di social media contro la barbarie. “Dove andremo a finire?” “Come è possibile che gli estremisti dettino legge?” “Come è possibile che si facciano giustizia da soli?”. E fra tutti emerge la convinzione che la cosiddetta blasfemia sia solo un pretesto. Secondo gli investigatori e uno zio della vittima, Gul Beg Rind, fra Qutub e i suoi assassini c’era stata sì una lite, ma non riguardava la religione, ma l’affitto dell’appartamento. La vittima affermava di aver già pagato, il proprietario di non essere stato pagato. Ahsan Ali e Waqas Ali, accusati ora di essere gli esecutori materiali del delitto, avevano anch’essi litigato con l’artista, sempre per lo stesso motivo.

Parlando con AsiaNews, Samson Salamat, famoso attivista per i diritti umani dichiara: “Sono in contatto con la famiglia di Qutub Rind che ha detto che il ragazzo era religioso, pregava cinque volta al giorno e l'accusa di blasfemia viene utilizzata solo per giustificare il suo omicidio”. Anche il comportamento della polizia, però, è ambiguo. I poliziotti dicono di aver arrestato gli imputati ma non hanno ancora registrato il loro arresto. Un amico di Qutub, Hamid Alì, ha sporto denuncia contro le persone coinvolte nel delitto. Le dichiarazioni degli accusati rendono ancor più difficile il caso. Se prima erano convinti di aver ucciso l’artista colpevole di blasfemia, adesso ritrattano in parte e lo accusano di non aver pagato l’affitto.

Il problema vero è: quante liti finiscono con un delitto impunito, perché “giustificato” dalla legge sulla blasfemia? Si tratta di una norma basata solo sul sospetto, sulla delazione, sulla fabbricazione di un caso. C’è chi viene accusato di aver bruciato il Corano e finisce bruciato vivo, come è capitato ai due giovani sposi cristiani Shahzad Masih e Shama Bibi, nel 2014. Chi è accusato dalle colleghe di aver sminuito l’importanza di Maometto, come è capitato ad Asia Bibi, in carcere da 9 anni, su cui pende tuttora una condanna a morte. Oppure studenti assassinati perché accusati di aver scritto post sui social network troppo favorevoli a minoranze religiose giudicate “eretiche”, come è capitato a Mashal Khan, l’anno scorso. Gli attivisti affermano: “Questo accadrà di nuovo e continuerà ad accadere, perché qui le persone possono farla franca nascondendosi dietro ai motivi religiosi. Se avessimo portato in tribunale gli assassini di Mashal Khan e li avessimo puniti secondo la legge, questo ragazzo forse non sarebbe morto”.

Il caso di Mashal Khan è un precedente esemplare, in effetti. Il ragazzo aveva 23 anni. Studiava giornalismo presso la Abdul Wali Khan University. Il 13 aprile 2017 una folla di centinaia di studenti aveva preso di mira il ragazzo. Nel campus si era sparsa la voce di loro commenti “che promuovevano la fede ahmadi su Facebook”. Stando ai racconti, alcuni studenti avrebbero chiesto a Mashal e al suo amico Abdullah di recitare versi del Corano e, al loro rifiuto, sarebbe scattato il linciaggio. Hamza Arshad, analista e giornalista, dopo l’assassinio di Mashal Khan esprimeva concetti che sono validi ancora oggi, dopo questo nuovo omicidio: “Ecco dove è arrivata la nostra società. Basta la semplice accusa di blasfemia a scatenare il vulcano di fuoco che ti avvolge, mentre i fanatici gridano slogan. La nostra società è diventata una fornace di sentimenti rabbiosi. Il modo in cui il giovane studente è stato ucciso e l’indifferenza delle guardie di sicurezza sono scioccanti, ma non ci sorprendono, perché nessuno ha mai difeso una persona accusata di blasfemia”. L’attivista lamenta che in Pakistan “non è concesso alcuno spiraglio di pensiero critico. L’unica cosa verso cui si è ben disposti è l’intolleranza”. “Potremmo pure combattere i talebani e i jihadisti, ma poi coloro che si fanno giustizia con mazze e pistole sono come le vacche sacre. Qui lo Stato è testimone passivo”.

Il nuovo premier eletto Imran Khan, che giurerà il prossimo 14 agosto, avrà molto da dire e soprattutto molto da fare. La sua posizione sulla legge sulla blasfemia è molto ambigua, come abbiamo visto su queste colonne, perché prima era favorevole ad emendarla, ora la difende. Quello del delitto Qutub Rind sarà il primo caso che dovrà affrontare. E alla prova dei fatti, si vedrà da quale parte pende realmente