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L'INTERVISTA

Pupi Avati non è così "cattivo" con le famiglie

"Il bambino cattivo" di Pupi Avati è stato subito interpretato come un atto di accusa contro la famiglia naturale da una critica gonfia di pregiudizi. Ma era veramente questo il suo messaggio? Ci risponde direttamente Pupi Avati

Cultura 29_11_2013
Pupi Avati

La fragilità delle famiglia si manifesta in tutta la sua debolezza ne Il bambino cattivo, film scritto e diretto da Pupi Avati e proiettato su Raiuno lo scorso mercoledì, in occasione della Giornata Internazione per i diritti dell’Infanzia. Attraverso gli occhi di un bambino si descrive la crisi di una coppia il cui sguardo è annebbiato da un egoismo dirompente e da un comportamento che sottolinea il continuo interesse di certi adulti a preoccuparsi solo di se stessi, dimenticando con troppa facilità che l’unica esistenza da salvaguardare è quella del loro bambino.

Una lettura distorta può trasmettere l’erronea convinzione che il film sia una condanna contro le famiglie naturali, tirate in ballo troppo spesso nell’ultimo periodo e continuamente bistrattate da un sistema che ne sottolinea solo le imperfezioni. Come se il male risiedesse esclusivamente all’interno di queste nuclei familiari e come se tutto ciò fosse, per ovvia conclusione, una chiara dimostrazione di quanto il resto possa rappresentare un necessario miglioramento. È la sensazione che si ha leggendo una critica al film comparsa in rete dove la fiction viene descritta come vera “fotografia dei guasti della famiglia tradizionale”. Interpretazione sbagliata, secondo quanto dichiarato dallo stesso regista Pupi Avati che aspirava a trasmettere un bel altro messaggio. Forse una condanna c’è ed è rivolta a quei genitori che non hanno più il coraggio di affrontare le problematiche che sorgono quando si mette su famiglia, a quei genitori che si tirano indietro di fronte alle prime difficoltà e continuano a mettere le esigenze  personali avanti a tutto il resto.

Protagonisti di Il bambino cattivo sono Michele e Flora, due insegnanti universitari il cui rapporto matrimoniale è in crisi. Il film lo chiarisce fin dalle prime battute in un dialogo che si delinea come un botta e risposta teso ad evidenziare solo gli aspetti negativi dell’altro e dove emerge con chiarezza che senso di responsabilità, rispetto e affetto hanno lasciato spazio a odio e risentimento. Un continuo siparietto il cui unico spettatore è il figlio undicenne Brando (interpretato da uno straordinario Leonardo della Bianca), un ragazzino dallo sguardo spento, chiuso nel suo silenzio che è un chiaro segnale  di aiuto, richiamo all’attenzione inesistente, e a quel bisogno d’amore di cui tutti noi aspiriamo.

Marito frivolo e padre assente, disinteressato alle necessità del figlio e alle problematiche della moglie Flora, Michele è il personaggio su cui si concentra maggiormente l’analisi del film il cui duplice intento è fin troppo chiaro. Se da un lato, difatti, si sottolinea l’inettitudine di un padre pronto a farsi una nuova vita con un’altra donna, addirittura mettendo al mondo altri bambini, ma non a prendersi cura di quel figlio abbandonato, dall’altro il film può essere visto come il desiderio di trasmettere un messaggio di aiuto alle tante famiglie in difficoltà, un grido a recuperare il vero valore della famiglia che, per anni, è stata anche il motore della società. Mostrando il ritratto di una famiglia difficile da digerire, eppure così vicino a tante realtà, il film cerca di spronare quelle stesse famiglie a ripartire proprio da lì, dal recupero di quel senso di responsabilità che ne ha decretato l’unione., ricordando come le nostre scelte egoistiche incidono sui quei figli, privi di colpa che maturano la convinzione di essere peso o “problema”. Abbiamo chiesto a Pupi Avati di chiarirci meglio il messaggio di questo film:

Il bambino cattivo fa emergere immediatamente un prima sensazione. Le famiglie tradizionali sono davvero così fragili?
La fragilità della famiglia tradizionale è evidente, è esplicita. Le persone si deresponsabilizzano, i genitori sono genitori che non vogliono più fare i genitori, perché è troppo difficile fare i genitori, è troppo faticoso e impegnativo. Produce una serie di impegni che molto spesso sono conflittuali con quello che è invece il progetto professionale di una persona che vuol dedicare tutto se stesso alla carriera. Non è un film che vuole esaltare le figure così. È un film in difesa dei bambini, nei riguardi dell’attenzione e dei sacrifici perché fare il genitore comporta un sacrificio, però dei sacrifici che merita un figlio.

Una madre depressa, un padre assente e un bambino solo e chiuso in un silenzio che sembra un grido di aiuto…
La mamma ha dei problemi ma ha soprattutto il problema di aver sposato una persona colta ma poco sensibile. Tratto che emerge chiaramente nella scena finale del film in cui il padre si mostra in tutta la sua pochezza e la sua aridità (nell’incontro con il figlio all’interno della casa di affido ndr.) Il bambino è come molti bambini che soffrono, sono molto più sensibili e sono molto più perspicaci. Ad un certo punto del film, lui si mostra e dice: “Se sono io il vostro problema eccomi qua, guardatemi”. Purtroppo il dolore fa sì che crescano in fretta. Lui ha uno sguardo lucido anche quando lo portano via e si ripromette di non piangere, è bravissimo a dominarsi nell’illusione che sia per un periodo breve quando in realtà così non sarà.

Quale messaggio si vuole inviare alle famiglie?
Questo film prende più di mira il padre perché la madre è in realtà vittima di un matrimonio in cui c’è un marito scadente. Ed è ricorsa all’alcol che l’ha portata a cadere in questa sua depressione. Ma è soprattutto un invito a riconsiderare i ruoli dei genitori come invece devono essere interpretati, quindi nel modo più pieno, nel modo più responsabile, soprattutto i papà.