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SOCIAL NETWORK

Qualche regola nella giungla di Facebook

La Corte di Cassazione ha fissato alcuni paletti invalicabili nell'uso di Facebook. Pene severe per chi diffama sul potente social network, avvicinando quest'ultimo ai tradizionali mezzi di informazione. La privacy è maggiormente difesa.

Politica 22_04_2014
Zuckerberg e la privacy

Nei giorni scorsi una sentenza della Cassazione ha fissato alcuni paletti invalicabili per la tutela della persona su Facebook. Il potente e sempre più diffuso social network appare una piazza virtuale incontrollata, spesso sfogatoio di insulti in libertà e di violazioni sistematiche della privacy, sia mediante la pubblicazione di notizie e opinioni sia attraverso la diffusione di fotografie e video a volte estorti con l’inganno e senza il consenso degli interessati.

La Suprema Corte ha ora stabilito un principio che tende ad avvicinare Facebook ai mezzi di informazione tradizionali. Chi parla male di una persona su quel social network, anche senza nominarla direttamente, ma indicando particolari che possano renderla identificabile, va incontro a una condanna per diffamazione.

Nel caso di specie, un maresciallo della Guardia di Finanza, sul proprio profilo Facebook, aveva usato espressioni diffamatorie nei confronti del collega che lo aveva sostituito in un incarico.

In primo grado il maresciallo era stato condannato dal Tribunale militare di Roma, ma in appello era stato assolto. La Cassazione lo ha condannato in via definitiva, asserendo che “ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone, indipendentemente dalla indicazione nominativa”.

Basta, quindi, che almeno due persone vengano a conoscenza di un commento, di un post diffamatorio, anche se anonimo, nei confronti di una persona per far scattare il reato. Subentra, quindi, un criterio di identificazione del soggetto leso, attraverso l’utilizzo di epiteti offensivi e concordemente riconducibili a una persona precisa.

Questa sentenza non è la prima in materia di diffamazione su Facebook. Nel luglio scorso, una consigliera leghista fu condannata dal Tribunale di Padova a un anno e un mese di reclusione e all’interdizione per tre anni dai pubblici uffici per aver offeso l’ex ministro all’integrazione, Cecile Kyenge.

Anni fa, il Tribunale di Monza condannò un giovane al pagamento di 15.000 euro di multa per aver offeso su Facebook la sua ex fidanzata, che l’aveva lasciato, apostrofandola con epiteti poco eleganti e ironizzando su un suo difetto fisico (strabismo).

Si tratta di testimonianze giurisprudenziali che muovono nella direzione di tutelare i diritti della personalità (onore, reputazione, immagine, privacy) anche in Rete. Sentenze di analogo tenore si sono susseguite negli anni anche con riferimento a blog e siti internet. Si punta ad eliminare il sistema dei due pesi e delle due misure, a seconda che qualcuno venga leso da un articolo cartaceo o da un commento online, ma la strada dell’equiparazione tra i mezzi è ancora lunga, se è vero che un giudice competente per la Rete non sempre è individuabile, stante la natura ubiqua e transnazionale di internet.

In un vademecum assai istruttivo (“Come difendersi dai social network”), il Garante della privacy ha messo in guardia gli internauti, soprattutto minorenni, da una pubblicazione disinvolta e imprudente dei propri dati in Rete. I motori di ricerca li indicizzano e li diffondono senza limiti. A parte la piaga del cyberbullismo, che produce vittime tutte le settimane (tanti adolescenti si tolgono la vita perché non resistono all’onta delle offese in Rete), si registrano casi di licenziamento di lavoratori che su Facebook si abbandonano a commenti poco lusinghieri verso il proprio datore di lavoro o situazioni sentimentali burrascose che degenerano anche in atti di violenza proprio a partire da insulti e violazioni della riservatezza compiute sui social network.

Le piazze virtuali vanno in qualche modo regolamentate, pur con tutte le difficoltà del caso. Gli utenti devono autoeducarsi al rispetto dei diritti delle persone, ma anche i provider e i gestori dei servizi, attraverso forme di autoregolamentazione, possono contribuire a rendere più sereno il clima in Rete. La democrazia on line deve nutrirsi di libertà ma anche di responsabilità e va costruita e alimentata in modo sano, con l’impegno di tutti. La giurisprudenza può indicare la strada, attraverso illuminanti sentenze che pongono un argine a prevaricazioni e abusi e stimolano il legislatore europeo e nazionale a normare situazioni delicate, scongiurando l’anarchia in Rete.