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Quegli africani che portano lo stigma di ebola

In Africa l'epidemia di ebola si sta diffondendo molto più rapidamente del previsto. Anche per la diffidenza della gente locale nei confronti della medicina. Ma il problema ancor più doloroso è dato dall'emarginazione sociale sofferta da tutti coloro che hanno contratto la malattia, anche se ne sono usciti.

Vita e bioetica 17_08_2014
Assistenza

Le dimensioni dell’epidemia di ebola sono di gran lunga maggiori di quanto indichino i dati sul numero dei casi e dei morti accertati: lo ha dichiarato il 14 agosto l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Non si stenta a crederlo: e non soltanto per l’ovvio motivo che nei paesi colpiti moltissime persone, a causa delle enormi carenze dei sistemi sanitari e delle infrastrutture, non sono in grado di raggiungere ospedali e medici, di cui peraltro non sarebbero in grado di pagare i servizi, e quindi si ammalano e muoiono all’insaputa delle autorità.

A tenere lontani gli Africani dagli ospedali, soprattutto all’insorgere di situazioni d’emergenza che creano panico, contribuiscono la diffusa diffidenza nei confronti dei governanti e in generale delle persone che occupano posizioni di potere, medici inclusi, e la persistenza di credenze tradizionali, di superstizioni, conseguenza della generale mancanza di una cultura scientifica.

In Sierra Leone, ad esempio, nei primi tempi dell’epidemia correva voce che in realtà il governo avesse denunciato casi di ebola solo per ottenere fondi dalla cooperazione internazionale e, in alternativa, che, con il pretesto di un’epidemia inesistente, i medici attirassero la gente negli ospedali per espiantarne gli organi.

Analogamente, nella Repubblica Democratica del Congo, durante l’epidemia di ebola scoppiata a Kikwit nel 1995, la gente era convinta che a morire negli ospedali fossero dei contrabbandieri di diamanti trafugati nelle miniere vicine alla città, uccisi dai medici per derubarli. Durante l’epidemia del 2000-2001 in Uganda, molti erano convinti che invece fossero i medici bianchi a diffondere la malattia per vendere gli organi delle vittime.

Frequente è quindi il ricorso a pratiche di cura legate a culti e credenze tradizionali e a rimedi spesso dagli effetti nocivi. La scorsa settimana, in Nigeria, qualcuno ha incominciato a dire che bisognava bere e lavarsi in una soluzione di sale per evitare il contagio. Nonostante le smentite del Ministro della sanità, molte persone sono già state ricoverate in ospedale per aver bevuto acqua salata.

Si verifica con l’epidemia di ebola esattamente quel che è successo con l’AIDS – sospetti, diffidenza, incuria, ricorso a rimedi tradizionali… – e che tanto ha contribuito alla sua diffusione in Africa. Basti dire che tuttora permane la convinzione che avere rapporti sessuali con una vergine prevenga dal contagio e curi la malattia.

Come per l’AIDS, inoltre, anche nel caso di ebola succede che chi ha in qualche modo a che vedere con la malattia subisca lo stigma sociale. Sia i malati che sopravvivono sia il personale ospedaliero spesso sono rifiutati e respinti, dai loro stessi famigliari, costretti a vivere nella vergogna e nella solitudine, evitati da tutti. La Croce Rossa ha raccolto testimonianze dolorosissime: un sopravvissuto all’epidemia del 1995-1997 in Gabon ha raccontato, ad esempio, che la gente nel vederlo cambia direzione, i taxisti rifiutano di trasportarlo e persino la polizia evita di fermarlo per paura di toccare la sua carta d’identità. In Uganda, nel 2000-2001, la popolazione è arrivata a bruciare case e beni dei sopravvissuti.

Questo atteggiamento così impietoso è in parte un’eredità della tradizione. Nelle società tribali africane si ritiene infatti che disgrazie, eventi dolorosi, incidenti, malattie siano il segno di una colpa commessa: sono la punizione degli dei e degli antenati custodi della tradizione per un errore, una trasgressione, la violazione di una norma. Oppure possono essere opera di stregoneria: una maledizione ordinata da qualcuno a cui si è fatto torto, di cui si è suscitata l’invidia…

È chiara l’intenzione di spiegare il mistero del dolore, della sofferenza individuando delle cause certe e che si possono scongiurare propiziandosi antenati e dei, evitando di suscitarne la collera, purificandosi ed espiando per evitare un castigo o mettervi fine.

Ma, puniti o maledetti, in qualche modo colpevoli, coloro che sono vittime di disgrazie, tra cui le malattie, mettono a disagio, fanno paura: la compassione è temperata dalla convinzione che abbiano sbagliato, li circonda un’aura inquietante. Ecco l’origine dello stigma.

Eppure da 2000 anni Qualcuno ha fornito al mistero del dolore una diversa spiegazione. Si trova nel Vangelo di Giovanni (9, 1-3), quando racconta la guarigione del cieco nato: Gesù, dice Giovanni, “passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: ‘Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché nascesse cieco?’ Rispose Gesù: ‘Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio’”.

Affermando che il dolore non è segno di colpa, il Cristianesimo ha permesso all’umanità di accostarsi ai sofferenti senza timore di sbagliare – reverente, al contrario, come in presenza di Dio – aprendo la via alla consolazione e al soccorso.

Ha poi liberato la ragione, consentendole di dedicarsi con sempre maggior successo allo studio del corpo umano e delle leggi della natura, di sviluppare la ricerca scientifica e di applicarla alla creazione di mezzi per rendere la vita dell’uomo più sicura e protetta: tra gli altri, quelli utili a prevenire e a curare le malattie.