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INTERVISTA

Santoro: il nostro "sì" per cambiare modello di sviluppo

«Nel referendum non c’è in gioco soltanto il futuro delle piattaforme per l’estrazione di gas e petrolio, ma anche il modello che vogliamo per lo sviluppo del territorio». A parlare è monsignor Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, che con gli altri vescovi pugliesi sostiene le ragioni del "sì" al referendum del 17 aprile.

Creato 14_04_2016
Monsignor Filippo Santoro

«Nel referendum non c’è in gioco soltanto il futuro delle piattaforme per l’estrazione di gas e petrolio, ma anche il modello che vogliamo per lo sviluppo del territorio. Votare “sì” è un segnale che si manda per chiedere uno sviluppo diverso, che tenga in conto sia il lavoro sia la salute e l’ambiente». A parlare è monsignor Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, che insieme ai suoi confratelli pugliesi si è pronunciato apertamente a favore del “sì” allo stop del rinnovo delle concessioni per l’estrazione di gas e petrolio. 

In un altro articolo chiariamo la nostra posizione a favore del “non voto” per far fallire l’iniziativa referendaria voluta da nove regioni. Posizione quindi opposta a quella di alcune conferenze episcopali regionali del Sud Italia. Ma vogliamo anche capire le ragioni di un pastore che è lontano da suggestioni ideologiche e che ha a cuore il destino della sua gente.

Allora monsignor Santoro, perché vuole fermare queste “trivelle”?
Io vivo in un territorio già ferito, che – come dice papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’ - paga un debito ecologico. L’Italsider prima e l’Ilva dopo hanno dato al nostro territorio un importante sviluppo economico ma a costo di un forte e pesante inquinamento, che si è tradotto in perdite di vita, con un tasso di mortalità più alto rispetto a centri vicini, legato a certi tumori. 

Sì, ma il referendum non riguarda l’operato di Italsider e Ilva.
È vero, ma quando un territorio è già ferito non si possono ammettere altre fonti di perturbazione. Se hai una mano ferita anche una puntura d’ape, che in altre circostanze sarebbe un nulla, può essere pericolosissima.

Ma le piattaforme oggetto del referendum ci sono già da molti anni, si tratta soltanto di decidere o meno di chiuderle.
Direi che è solo un aspetto del referendum. C’è anche una visione più generale che riguarda il futuro che vogliamo. Le trivelle hanno dietro l’idea di uno sviluppo illimitato legato all’uso dei combustibili fossili, e anche di uno sviluppo non legato alla realtà del territorio. Il Papa nella Laudato Si’ ci indica invece la direzione opposta, quella di un graduale passaggio a fonti di energia rinnovabile, ma soprattutto la promozione di un’ecologia integrale, ovvero di uno sviluppo economico che non sia separato dal rispetto dell’ambiente, della società, della storia, della vita quotidiana. La Puglia ha bisogno soprattutto di valorizzare le sue risorse: l’agricoltura, la pesca, il turismo.

Tutte cose però che non sono incompatibili con l’estrazione del gas, che peraltro è anche una energia pulita. Oppure avete avuto problemi concreti anche con le piattaforme?
No. A Taranto no. Però a Taranto è aperta la questione dei due depositi del progetto Tempa Rossa, al centro tra l’altro di una indagine della magistratura.

Ma Tempa Rossa è un progetto di estrazione del petrolio in Basilicata, non c’entra con l’estrazione in mare.
Ma sono due aspetti legati, perché c’è di mezzo sempre questa idea di continuare l’estrazione di combustibili fossili con tutto quel che ne consegue. Votare per lo stop alle trivelle manderebbe un segnale, avrebbe un valore simbolico che influirebbe su tutta la situazione.

Mi scusi, però di energia c’è bisogno e non è certo che vento e sole possono sostituire i combustibili fossili. Inoltre in questo settore ci lavorano anche molte persone, e anche il lavoro non è proprio un argomento secondario.
Ecco, questo è interessante: quanti posti di lavoro si perderebbero? Qui c’è una danza dei numeri: chi dice 3mila, chi 130mila. Ma l’unico numero serio lo ha dato il ministro dell’ambiente Galletti: sulle piattaforme ci lavorano 70 persone. Ebbene, non è che questi perderanno il lavoro il giorno dopo il referendum. Hanno comunque anni davanti prima dello scadere delle concessioni, c’è tutto il tempo di sviluppare modalità per rioccuparli.

Lei diceva prima di investire piuttosto sul turismo, ma c’è l’esempio della Romagna dove ci sono più piattaforme in mare che però risultano perfettamente compatibili con un’industria turistica molto sviluppata. E infatti la Regione Emilia-Romagna non condivide il referendum, e neanche i vescovi. Perché in Puglia non potrebbe essere possibile la coesistenza di un forte turismo e di estrazione di gas e petrolio?
In Romagna sul turismo c’è stato un investimento solido e potente dello Stato e dei privati. Qui invece non c’è stato. La vocazione turistica romagnola è precedente all’avvio delle perlustrazioni dei fondali. Al contrario in Puglia si è insediata l’industria dimenticando il territorio. Il referendum dunque è anche un segno, è dire che vogliamo uno sviluppo che tenga conto dell’ambiente.
Io sono contrario alle posizioni dei gruppi ambientalisti che chiedevano semplicemente la chiusura dell’Ilva. Io ho detto: non è possibile, perché non si può sacrificare il lavoro con cui la gente si guadagna da vivere. Ma neanche è possibile andare avanti con il modello produttivo attuale. Bisogna trovare altre strade che mettano insieme lavoro e salute. Non entro negli aspetti tecnici, che non mi competono, ma nella mia missione pastorale ho cercato di vivere proprio questo: da quando sono arrivato a Taranto nel 2012, ho vissuto vicino alla gente: alle persone malate di cancro o con morti in famiglia a causa dell’inquinamento, e allo stesso tempo vicino agli operai dell’Ilva – diverse volte sono andato in fabbrica – sostenendo il posto di lavoro per tutti. E in questi anni nessuno ha perso il posto di lavoro. Quello che mi interessa è che, insieme al lavoro, sia possibile una difesa dell’ambiente e quindi della vita.