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GLI OSCAR E LA STORIA

Siamo ancora ossessionati dalla II Guerra Mondiale

Oscar 2018, come era prevedibile i due premi principali sono stati assegnati a La forma dell’acqua. C’è tuttavia un aspetto che rischia di passare inosservato: è stata anche la grande notte della Seconda Guerra Mondiale, con i premi a Dunkirk e The Darkest Hour. Perché il grande conflitto concluso 73 anni fa continua ad ossessionarci?

Cinema e tv 06_03_2018
Winston Churchill interpretato da Gary Oldman in The Darkest Hour

Oscar 2018, come era ampiamente prevedibile i due premi principali, miglior film e regia, sono stati assegnati a La forma dell’acqua di Guillermo del Toro. Su tredici nomination, c’era da attenderselo. C’è tuttavia un aspetto che rischia di passare inosservato: quella degli Oscar 2018 è stata anche la grande notte della Seconda Guerra Mondiale.

A 73 anni dalla sua conclusione, pur non essendo in un anno in cui si celebrano anniversari particolari, il grande conflitto globale continua a ispirare autori, sceneggiatori e registi, con film di grande qualità. E’ il caso delle due pellicole premiate, The Darkest Hour e Dunkirk, cinque Oscar in due, fra cui miglior attore protagonista per Gary Oldman, per la sua straordinaria interpretazione di Winston Churchill. I due film potrebbero essere visti come un distico, anche nella stessa serata al cinema: sono ambientati nello stesso identico periodo della guerra, su un unico episodio chiave: il miracoloso salvataggio dell’esercito britannico dalla disastrosa campagna di Francia, fra il maggio e il giugno del 1940. Una “sconfitta vittoriosa”, dunque, che viene dipinta dal cinema contemporaneo nel grande affresco di Nolan con la battaglia in terra, in mare e in cielo (Dunkirk) e nelle aule del parlamento britannico, dove un Churchill politicamente isolato da chi voleva una pace negoziata con Hitler riuscì comunque a imporre la sua linea, a favore della resistenza ad oltranza, grazie alla sua potente retorica (The Darkest Hour).

Ma perché l’attenzione sulla Seconda Guerra Mondiale non finisce mai? Basta considerare i numeri per rendersene conto: più di 1300 film, dal 1940 ad oggi e continuano a sfornarne, una cinquantina solo negli ultimi 3 anni (molti dei quali mai arrivati nei cinema italiani) e ben 25 in produzione e pronti a uscire in sala. Giusto per fare un confronto, alla Prima Guerra Mondiale sono stati dedicati poco più di 130 film, circa un decimo. Probabilmente nessun altro soggetto storico è stato rappresentato al cinema più della Seconda Guerra Mondiale. "Perché siamo ancora così ossessionati dal 1940?” si chiede Peter Hitchens nel suo articolo Not their Finest Hour (Tutt’altro che la loro ora più bella) su First Things. La Seconda Guerra Mondiale è uno degli episodi moralmente più controversi, anche per i vincitori. “Sin da allora abbiamo visto grandi guerre in Corea, Vietnam, Iraq e Jugoslavia, molte più guerre arabo-israeliane di quante se ne possano facilmente contare. Abbiamo vissuto Suez, la fine dell’Apartheid, gli orrori di Pol Pot, la Rivoluzione Culturale di Mao, gli attacchi criminali su Manhattan nel 2001, la Crisi dei Missili di Cuba e il dramma straordinario della caduta del comunismo. Ognuno di questi eventi contiene lezioni morali a sufficienza da riempire una vita intera. Tutti furono spettacolari. Eppure non sembrano affatto eclissare, nella memoria collettiva, una guerra moralmente ambivalente, che finì settantatré anni fa, combattuta in modo brutale, in cui uno dei vincitori era un dispotismo terribile che si reggeva sulla menzogna e sulla violenza omicida”. L’articolo di Hitchens non fornisce alcuna risposta chiara al suo stupore iniziale, purtroppo. Si dilunga piuttosto sull’autocritica alla politica britannica che spinse il Regno Unito in guerra, un conflitto che, benché vinto, causò la perdita dell’impero e dello status di prima potenza mondiale.

Tesi storicamente discutibile, che provocherà non pochi mal di pancia in Inghilterra e che comunque non contribuisce a dare una risposta al quesito iniziale: perché siamo ancora ossessionati da quella guerra e solo quella, anche al di fuori dei confini insulari del Regno Unito? Hitchens fornisce, in ogni caso, degli spunti molto interessanti. Vediamo di approfondirli noi. Prima di tutto: il cinema occidentale, anche nel pieno dell’era dell’auto-critica su tutto il proprio passato, non ha ancora fatto realmente i conti sulla brutalità dei metodi impiegati dagli Alleati, compresi i bombardamenti a tappeto e le due bombe atomiche. Ma soprattutto non ha fatto i conti con l’alleato più ingombrante: Stalin. Nulla da dire, da parte degli sceneggiatori sulla sua occupazione dell’Europa orientale e centrale negli ultimi anni di guerra e sugli sterminii che ne seguirono, subiti da tutte le popolazioni locali. Nulla da ricordare sul patto Ribbentrop-Molotov, sull’alleanza fra l’Urss di Stalin e la Germania di Hitler che diede inizio alla guerra. Se ne parla solo nella cinematografia locale, finlandese e polacca, in film rari che qui finiscono quasi sempre in sordina (come Katyn di Andrzej Wajda) e in nessuna produzione hollywoodiana: The Way Back, di Peter Weir è un caso più unico che raro. E non ha avuto successo. Interessante notare che sia Dunkirk che The Darkest Hour sono ambientati nel 1940, quando il patto Ribbentrop-Molotov era ancora in vigore e Hitler aveva mani libere in Francia proprio perché aveva le spalle coperte (e i magazzini ben riforniti) dai sovietici. Specie in The Darkest Hour ci si poteva attendere almeno qualche battuta in più sui due totalitarismi, dall’anti-comunista Churchill. Invece no: solo il nazismo è il nemico, in tutti i film che si rispettino.

La risposta per la super-produzione di pellicole su questo soggetto storico (e solo su questo) la fornisce Frank Cottrell Boyce, sceneggiatore di Le due vie del destino al quotidiano britannico The Guardian: “La guerra è diventata una metafora, non solo storia. Ci si può ricamare sopra tutte le volte che si vuole in tutti i modi (…) ne siamo attratti per le sue certezze morali. Provi a spiegare la guerra fredda ai bambini: riguardava una metafisica della geografia d’Europa che è completamente scomparsa. Mentre non c’è nessuna difficoltà a capire a cosa servisse lo sbarco in Normandia”. La guerra contro il nazismo (e secondariamente, quella contro i giapponesi) è dunque una “certezza morale”, contro un nemico la cui malvagità è considerata tale in tutto il mondo, a tutte le latitudini e in tutte le epoche. Se per i giapponesi c’è, ultimamente, anche un minimo di rispetto (come ne Le lettere da Iwo Jima, di Clint Eastwood), contro i nazisti gli sceneggiatori possono scrivere qualsiasi cosa, anche la più sadica, senza temere alcuna protesta. Anzi, le proteste si levano contro pellicole in cui i tedeschi sono rappresentati in modo più umano, come U-Boot 96 di Wolfgang Petersen del 1981 (fece scandalo perché ritrasse i sommergibilisti tedeschi nella battaglia dell’Atlantico, fino ad allora considerati alla stregua di criminali di guerra), o il più recente La caduta, sugli ultimi giorni di un Hitler umano, molto umano, impersonato da Bruno Ganz.

Ecco dunque spiegato perché si vada a colpo sicuro con un film sulla Seconda Guerra Mondiale. La lotta contro il nazismo, più ancora che quella contro il Giappone imperiale (che riguarda solo statunitensi e cinesi) è la miglior rappresentazione contemporanea della lotta fra Bene e Male. L’unica occasione in cui le classi dirigenti anche attuali possono vantare di aver combattuto realmente dalla parte giusta, senza timor di polemica interna. Lo si è visto anche nelle ultime elezioni in Italia: l’antifascismo, dunque la riproposizione della causa della Seconda Guerra Mondiale, è stato ancora una volta usato dalla sinistra per cercare di mobilitare il suo popolo.

La guerra del 1939-1945 fu anche l’ultima in cui vi fu un vincitore chiaro. Dopo il 1945, infatti, iniziò l’era della non-guerra nucleare fra Usa e Urss e delle guerre infinite, senza una conclusione con un vincitore e un vinto, in Asia e Medio Oriente. Tutt’oggi le guerre si combattono, in Afghanistan, in Iraq, ma non si vincono. E anche per nemico viene riservata una quota per le minoranze da rispettare, da capire, da giustificare.