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DOPPIO STANDARD

Travestirsi da nero è uno scandalo. Sdoganare l'infanticidio no

Il governatore della Virginia, Ralph Northam, ha annunciato che rimarrà al suo posto. Motivo dello scandalo è che si era travestito da nero (da Michael Jackson), ora considerato un atto di razzismo. Nella stessa settimana, sempre Ralph Northam, aveva implicitamente sdoganato l'infanticidio. Ma quello non fa scandalo. Perché questo doppio standard morale?

Editoriali 14_02_2019
Ralph Northam

Il governatore della Virginia, Ralph Northam, ha annunciato che rimarrà al suo posto, che non rassegnerà le dimissioni. E’ tuttora al centro di uno scandalo, scoppiato a causa di una foto che risale a più di trent’anni fa. Una foto in bianco e nero, in senso letterale, scattata nel 1984, a due ragazzi dell’età del liceo, uno travestito da afro-americano (e dunque tinto di nero), l’altro col cappuccio del Ku Klux Klan. E cosa ci sarà di male in una carnevalata? C’è eccome, perché i nervi degli afro sono a dir poco tesi, in questi anni e anche una foto di due ragazzi in costume, di cui uno tinto di nero, può dare adito a uno scandalo nazionale, con la più infamante delle accuse: razzismo. Ralph Northam, democratico, ha negato di essere ritratto in quella foto. Ma per prevenire i risultati di ulteriori indagini, ha ammesso che… un giorno, negli anni ’80, si era travestito da Michael Jackson. Ma per far capire che è ancora dalla parte giusta della storia, ha annunciato l’istituzione di corsi di sensibilizzazione al razzismo per i dipendenti pubblici dello Stato. Come i nostri lettori sanno, lo stesso governatore virginiano è stato al centro di ben altra polemica, proprio nella medesima settimana: ha implicitamente lasciato intendere che un bambino nato vivo, se la madre decide così, può anche essere lasciato morire. Ha sdoganato l’infanticidio. La sua estrema sensibilità per la questione razziale, non si applica ai nascituri, evidentemente giudicati dei sub-umani. Non sono seguite, né scuse pubbliche, né richieste di dimissioni. La sua parte politica, il Partito Democratico, non ha contestato la sua uscita.

I due casi, presi assieme (riguardano la stessa persona, nella stessa settimana), impongono almeno qualche riflessione. Le scuse per una foto, non ancora pubblicata, che riguarda una festa in maschera, sono il tipico esempio dell’iper-sensibilità che si è raggiunta nella questione razziale. Ci sono episodi, più o meno noti e gravi, che indicano a che punto è arrivata l’isteria, come quello dell’attore canadese cacciato da una troupe teatrale perché è bianco ma porta i capelli alla giamaicana (e dunque è accusato di “appropriazione culturale”) a quello ormai famoso del ragazzo cattolico munito di berretto di Trump che ride di fronte al nativo americano. E che per questo diventa immediatamente simbolo di razzismo. La questione segregazionista, proprio in Virginia, proprio nel Partito Democratico, è un tema incandescente: dal 1902 al 1968, nello Stato del Sud (ex capo fila della Confederazione, durante la Guerra Civile) fu segregazionista, nelle scuole soprattutto. I Democratici virginiani si batterono fino all’ultimo per mantenere in piedi il sistema segregazionista. Oggi il Partito Democratico fa di tutto per sbianchettare questo passato, ergendosi a paladino dell’emancipazione e della causa anti-razzista. Paradossalmente, però, si crea un clima di nuova segregazione. Il bianco deve vestirsi secondo tradizione europea, il nero può vestirsi da nero, il latino da latino, non sono ammesse contaminazioni, altrimenti possono essere intese come un modo di dileggiare le culture altrui. Un atteggiamento, una risata, persino un complimento, se rivolto a una persona di etnia diversa, può essere letto come un insulto e affrontato in malo modo. Tutto questo porta all’allontanamento fra le etnie.

La campagna contro la discriminazione, ovviamente, non riguarda solo i neri e i latini, ma anche le donne. Che numericamente sono maggioranza, ma da un punto di vista politico sono equiparate a una “minoranza”, perché solo nell’ultimo secolo hanno conquistato la parità dei diritti. Anche nel femminismo radicale si usano i metodi tipici dell’anti-razzismo e si crea lo stesso clima di terrore. Fra gli esempi ormai più eclatanti c’è la denuncia di molestie, vere o presunte, anche in un passato ormai remoto. A partire dal movimento #MeToo, nato per denunciare gli abusi nel mondo dello spettacolo, si segue sempre lo stesso copione: niente prove, spesso non parte neppure un processo, ma il sopruso del “maschio bianco” con la sua “virilità tossica” viene punito dalla società anche dopo una mera denuncia di abusi sessuali. Uno degli accusati, attualmente, è Justin Fairfax, il vice di Ralph Northam. Ora rischia seriamente la carriera. Paradossalmente anche il femminismo radicale sta provocando inconsapevolmente una nuova segregazione: i nuovi regolamenti delle aziende, a partire dalle finanziarie di Wall Street, invitano a evitare il contatto con le donne il più possibile. Per evitare problemi, principalmente.

Ma la principale vittima collaterale della causa anti-razzista e anti-maschilista è proprio il nascituro. Che sia feto, o anche già nato vivo, è considerato diritto della donna (collettivamente intesa, come “minoranza”) sopprimerlo per una questione di emancipazione dalla famiglia. Il problema vero è che, in una logica puramente tribale, come sta diventando il nuovo progressismo, il nascituro, il vero soggetto debole, perde ogni diritto. Esattamente come in una tribù, non conta più la persona, ma la comunità, inclusa la sua possibilità di sopprimere i deboli al suo interno. Pochi si rendono conto che la pianificazione familiare, alla matrice di Planned Parenthood, il principale promotore dell'aborto degli Usa, è un'idea nata dall'eugenetica. Da un'idea profondamente razzista, dalla selezione della razza e dal controllo delle nascite nelle minoranze.