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OTTOCENTO DA RISCOPRIRE/19

Un popolo alla ricerca della libertà

In Libertà Verga non aderisce alla violenza, né a quella del popolo né a quella del Generale. Alla bestialità della folla si unisce la tragicità del ritorno all’ordine finale che rende inutile lo sforzo del popolo e fa emergere l’assurdità del sangue versato sia nel mondo dei ricchi che in quello dei poveri.

Cultura 23_07_2017

Appartenente alla raccolta Novelle rusticane, «Libertà» si configura come un documento storico che racconta i fatti di Bronte avvenuti nell’estate del 1860. Quando i Mille, sbarcati in Sicilia, si muovono nell’isola gridando «Libertà!», facendo intendere che il loro arrivo significherà più libertà e più giustizia per tutti, molti contadini credono che avverrà una ridistribuzione delle terre dei grandi proprietari. Del resto, il 2 giugno del 1860 Garibaldi ha proclamato la divisione delle terre demaniali. Per questo, di fronte alla mancata realizzazione di tali progetti, il popolo insorge contro i cappelli, cioè contro le istituzioni politiche e religiose con una ferocia che ricorda da vicino le immagini descritte da Manzoni nell’assalto al forno delle Grucce ne I promessi sposi. Vedremo che in realtà questo testo non è del tutto affidabile, perché tralascia del tutto un elemento fondamentale della storia: chi ha fomentato la folla? C’è qualche esponente del ceto elevato alla base della rivoluzione? Verga era a conoscenza di queste informazioni? E in caso affermativo perché ha taciuto?

Ma procediamo con ordine ripartendo dall’inizio della novella che si apre in medias res: «Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: “Viva la libertà!”». La folla si muove come fosse il mare in tempesta, immagine ben nota al popolo di quelle terre: il mare è irrefrenabile, insostenibile, imprevedibile. Il racconto è drammatico, mosso, spesso teatrale. I personaggi parlano, imprecano, gridano, hanno perso la loro umanità e la loro dignità, costretti per troppi anni a vivere in miseria. Quanti sono stati da loro identificati come colpevoli subiscono il linciaggio: il barone, il prete, lo sbirro, il guardaboschi.

Libertà significa per il  popolo ribaltare lo status quo, eliminare coloro che detengono il potere nell’ordine politico e sociale che ora bisogna stravolgere. Anche il prete viene ammazzato. Il punto di vista cambia repentinamente, dagli occhi del popolo si passa a quelli del prete che è in peccato mortale, perché ha avuto una relazione con la gnà Lucia. Il momento più tragico della rivolta è l’uccisione barbara di un ragazzo di undici anni. In poche righe, vengono presentati tre punti di vista: quello della folla che lo riconosce colpevole, perché figlio di un notaio  (sarebbe divenuto anche lui più tardi un notaio. Meglio ucciderlo prima che possa compiere le sopraffazioni proprie dei più ricchi); quello del ragazzo che non vuole morire; quello del padre che grida rivolto al figlio. La scena descritta è truce, come poche: «Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni». Una volta iniziata la mattanza, bisogna portarla a termine. Le donne appaiono ancora più feroci degli uomini, «agitando le braccia scarne».

Poi l’attenzione della narrazione passa alla scena della baronessa che fa barricare il portone per rintuzzare l’assalto del popolo. Sembra una sceneggiatura cinematografica ante litteram: la madre che si nasconde e chiude la bocca al figlio minore perché non si faccia sentire, l’altro figlio che si pone a protezione della donna, ma invano. È un «carnevale furibondo», «in mezzo agli urli ubriachi della folla digiuna». Si noti la dimensione di festa che vive il popolo, sottolineata in maniera efficacissima con l’immagine del carnevale e del pranzo in cui i convitati bevono vino, senza aver mangiato: la conseguenza è l’ubriacatura di tutti i banchettanti. Le azioni sono così irrazionali e incontrollate. La scena conclusiva vede protagonisti i cani «con un rosicchiare secco di ossa». La luna piena accompagna lo squarcio cimiteriale, richiamando alla memoria opere importanti della tradizione ottocentesca: I sepolcri foscoliani con la cagna famelica che vaga per le tombe e I promessi sposi con la notte degli imbrogli animata dal chiaroscuro generata dalla luce della luna. Finisce così la descrizione della giornata della rivolta.

La domenica, quando si sono ormai placati tutti gli spiriti rivoluzionari, anche quanti hanno partecipato alla barbara carneficina del giorno prima si recano a messa perché non vogliono perdere la funzione festiva. Ma non c’è il prete, perché è stato ucciso il giorno prima. Ecco la descrizione: «Una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi, ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino».

A Bronte viene inviato da Garibaldi il Generale, Nino Bixio, piccolo di statura, ma deciso e categorico. Mentre sale verso il paese con le altre giubbe rosse, facilmente potrebbe essere ammazzato, ma nessuno muove un dito. La sua prima iniziativa è quella di catturare alcuni dei rivoluzionari e di fucilarli davanti a tutti: «Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono». Anche in questo caso il proposito di oggettività nella narrazione non equivale a mancanza di umanità nella descrizione. Guardiamo il taglialegna che piange come un bambino, prima di essere fucilato, pensando alla madre che gli parla per l’ultima volta e che grida quando le è stato portato via per l’ultima volta. Sono sentimenti di umanità intensi quelli descritti, che sembrano compensare la mancanza totale di umanità degli stessi paesani il giorno prima di Nino Bixio ora.

Ecco che quei cappelli che il popolo ha cercato di eliminare rientrano in scena proprio a giudicare quanto accaduto: arrivano i giudici, «dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio». Si fa il processo e i colpevoli vengono portati in città, «nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate». Le mogli si trasferiscono in città per qualche tempo, ma poi ritornano al loro paese. Nulla è cambiato, nonostante la rivolta, nonostante siano arrivate le giubbe rosse di Garibaldi. In poco tempo tutti tornano a svolgere le stesse attività di prima. Anche qui emerge  un tratto della sicilianità di Verga e di tanti altri autori siciliani come Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore del Gattopardo che scrive che in Sicilia tutto cambia in modo tale che nulla cambi per davvero. Emerge una mentalità fatalista e pessimista, plasmata da secoli in cui il popolo siciliano è stato conquistato da altre potenze, passando da un dominio all’altro, senza che questo cambi davvero le condizioni della terra.

Il processo dura tre anni. Infine, ecco la sentenza: vengono riconosciuti colpevoli, proprio loro che avevano combattuto per la libertà, loro che avevano pensato che la libertà significasse giustizia sociale e redistribuzione di terre.

Ritorniamo allora alle domande poste all’inizio. Chi ha fomentato la folla? Nel racconto non si fa cenno all’avvocato Lombardo, uno dei promotori della rivolta, presentatosi spontaneamente a Nino Bixio e da lui fatto fucilare. Come mai è stato omesso un personaggio così significativo nella vicenda? E ancora ci chiediamo le ragioni per cui Garibaldi abbia chiesto a Nino Bixio di sedare la rivolta così rapidamente. Diverse sono le ipotesi. Una di queste sostiene che Garibaldi volesse dare un esempio agli altri paesi della Sicilia in modo da evitare una rivoluzione che portasse al rivolgimento sociale. Garibaldi voleva, in un certo senso, normalizzare i territori secondo i disegni sabaudi. Un’altra ipotesi è che si volevano stroncare altre possibili rivolte sull’esempio di Bronte. La terza e forse più probabile ragione è che Bronte era un Ducato inglese all’epoca in mano alla famiglia dell’ammiraglio Nelson e probabilmente l’Inghilterra ha fatto pressioni a Garibaldi perché intervenisse celermente.

Da che parte sta Verga? Lo scrittore è cosciente dell’ineluttabilità dell’azione umana: la sorte dei contadini è già segnata, essi sono dei vinti senza possibilità reale di riscatto. Verga non aderisce alla violenza, né a quella del popolo né a quella del Generale. Alla bestialità della folla si unisce la tragicità del ritorno all’ordine finale che rende inutile lo sforzo del popolo e fa emergere l’assurdità del sangue versato sia nel mondo dei ricchi che in quello dei poveri.