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TOTALITARISMI

Ungheria, l'orrore del passato che l'Europa dimentica

Sui quotidiani italiani è l’ora della (psico)analisi delle elezioni ungheresi dopo la vittoria del conservatore Orban. Quasi tutti dimenticano un "dettaglio": gli elettori votano ricordando anche la repressione comunista, continuata fino al 1989. Una visita a Budapest, sui luoghi del terrore, servirebbe a rinfrescare la memoria degli europei.

Editoriali 11_04_2018
La Casa del Terrore

Sui quotidiani italiani è l’ora della (psico)analisi delle elezioni ungheresi. E si scava nella storia, come fa il Corriere, intervistando il politologo austriaco Anton Pelinka. Oppure nella psico-politica, come fa Ezio Mauro in prima pagina su Repubblica.

La tesi di Pelinka (E’ un paese che si sente punito dalla Storia) è, in estrema sintesi, che gli ungheresi si sentono eterne vittime. Dunque il loro voto riflette, non solo le insicurezze di oggi, ma anche le rivendicazioni del secolo scorso, a partire dalla mutilazione del territorio ungherese, a seguito della sconfitta dell’Impero Austro-Ungarico. Pelinka descrive Orban come un “nazionalista” (dunque un revanscista) e non semplicemente come un “conservatore”. La tesi di Ezio Mauro, invece, è meno storica e più politologica. L’ex direttore di Repubblica si chiede quanto potrà resistere la democrazia ungherese, dopo che si è privata di tutti gli elementi di liberalismo che le permettono di funzionare come garante dei diritti dei suoi cittadini. Venuti meno i principi del liberalismo, sacrificati nel nome della sicurezza per paura del diverso e della globalizzazione, potrebbe venir meno la stessa democrazia.

L’intervista e l’editoriale, sulla prima pagina dei due maggiori quotidiani italiani, sono spiegazioni molto parziali. Perché è vero che gli ungheresi odierni sono inclini a sacrificare parte della libertà per la sicurezza. E (forse) possono ancora provare un certo rancore atavico per la sconfitta del 1918. Ma tutti loro portano una grande ferita molto recente che i nostri analisti tendono troppo facilmente a sottovalutare: mezzo secolo di regime comunista imposto dall’Unione Sovietica. L’Ungheria ha avuto, inoltre, la sventura di subire l’occupazione di entrambi i totalitarismi del Novecento, il nazismo prima (1944-1945) e poi il comunismo (dal 1945 al 1989).

Serve rinfrescare la memoria, magari con una visita più approfondita a Budapest, nei luoghi del terrore nero e rosso, per capire quanto profondo sia stato quell’orrore. Il visitatore parta dalla sede del Parlamento, giri a sinistra verso il Ponte delle Catene, sul lungofiume troverà tante paia di scarpe in bronzo. Sono la riproduzione di quelle lasciate dagli ebrei ungheresi, affogati nel Danubio dai nazisti e dai loro collaborazionisti locali, le Croci Frecciate. Ne sono morti più di 20mila così, incatenati fra loro, spinti nelle gelide acque d'inverno, ammazzati in massa per eliminarne il più possibile nel minor tempo. Gli ebrei avevano trovato rifugio in Ungheria fino a quel momento: benché alleato di Hitler contro l’Urss, l’ammiraglio austro-ungarico Miklos Horthy, ufficialmente reggente (in vacanza del trono d’Asburgo), aveva fino a quel momento tenuto lontano gli orrori della persecuzione nazista dai suoi confini. Fino al 15 ottobre del 1944, quando un golpe delle Croci Frecciate, orchestrato dalla Germania nazista, rovesciò il suo potere e stroncò il suo tentativo di uscire dalla guerra con una pace separata. Fra l’ottobre del 1944 e il febbraio del 1945, Budapest venne governata dal più duro dei regimi collaborazionisti e divenne un campo di battaglia fra nazisti e sovietici. Finì rasa al suolo. I nazisti non fecero a tempo a completare il loro sterminio che subito entrarono in scena i nuovi dominatori, i sovietici, con le loro liste nere di cittadini da eliminare.

Il passaggio di consegne da un totalitarismo all’altro è documentato nella Casa del Terrore, poco lontano. Un tetro edificio, ora museo, prima sede delle Croci Frecciate, poi della polizia politica comunista. Fra i due totalitarismi vi era poca differenza: una sezione del museo è dedicata ai trasformisti. Per i militanti delle Croci Frecciate bastava una firma su una dichiarazione di pentimento per diventare militanti comunisti, usati anche per i compiti più sporchi. Erano chiamati i “piccoli nazisti”, perennemente ricattati dal nuovo regime a causa del loro passato, per questo piegati a un’obbedienza più solerte. I nuovi/vecchi aguzzini vennero scatenati nelle campagne, tradizionalmente più conservatrici, ad aizzare i contadini più poveri contro i proprietari terrieri. Il museo della Casa del Terrore documenta ingiustizie, soprusi, lavaggio del cervello fin dall’istruzione elementare, torture, una giustizia completamente sovvertita in cui era il Partito a decidere chi fosse colpevole e perché, senza prove o “lungaggini borghesi”.

Documenta anche la resistenza tenace di un popolo, aggrappato alla sua fede. Fu la Chiesa a costituire la maggior autorità morale che si oppose al regime, non fu piegata dalle continue campagne contro i “clerico-nazisti” come erano spregiativamente chiamati tutti i sacerdoti e tutti i fedeli. Il cardinal József Mindszenty resistette a torture e umiliazioni in pubblico, in carcere gli fu anche vietato di pregare, osservato a vista giorno e notte. Liberato in seguito alla rivolta del 1956, riuscì poi a rifugiarsi presso l’ambasciata statunitense. Dopo il regime rimase vittima della diplomazia vaticana del cardinale Agostino Casaroli, che al suo esempio di resistenza preferì la distensione con i regimi comunisti. Con compromessi destinati al fallimento.

Tutta la storia contemporanea d’Ungheria è una vicenda di abbandono. Nel 1956, quando il paese ebbe la forza di sollevarsi contro il regime comunista, gli occidentali (gli stessi, talvolta anche le stesse persone, che oggi predicano contro la “democrazia illiberale” di Orban), per paura di una guerra con l’Urss, si voltarono dall’altra parte. I comunisti occidentali di allora, incluso il nostro ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, legittimarono la repressione. Il paese venne nuovamente invaso dai sovietici e subì una punizione ancor più dura. I muri della Casa del Terrore sono costellati delle foto delle oltre 250 vittime della repressione del 1956, uomini e donne tuttora scomparsi e privi di una sepoltura. Nei video, proiettati sugli schermi del museo, si possono ascoltare le testimonianze strazianti dei sopravvissuti, gli orrori a cui hanno dovuto assistere.

Poco fuori Budapest, nel Memento Park, si possono ammirare le vestigia del regime comunista: le statue, i nomi delle strade, i bassorilievi che un tempo non lontano ornavano tutta la città. C’è la statua del “piccolo Lenin”, figura educativa per tutti i bambini, che avrebbe dovuto sostituire il Bambin Gesù. C’è quel poco che resta della statua di Stalin: solo gli stivali. Il resto era stato tagliato e distrutto dagli insorti del 1956. Nella sezione al chiuso del Memento Park, il visitatore può assistere ai video originali di addestramento degli agenti della polizia politica: come spiare i cittadini, come riprenderli, come entrare nelle loro case senza essere scoperti, come ricattarli per trasformarli in collaboratori.

Gli ungheresi non vogliono più tornare in quel passato. Hanno recuperato a fatica la loro identità nazionale e la loro storia, proibite fino a poco fa, non ci rinunceranno troppo facilmente. Hanno vissuto sulla loro pelle entrambi i regimi più mortali del Novecento, sanno riconoscerne i sintomi. Pur senza scadere in facili parallelismi, quando in questi anni vedono che le decisioni che li riguardano sono prese a Bruxelles invece che a Budapest, quando realizzano che le scelte sono fatte da una burocrazia non elettiva invece che da un parlamento nazionale eletto, quando si sentono accusati di essere dei “reazionari” da politici stranieri che parlano a nome del “progresso”… non provereste anche voi un brivido di terrore?