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SCELTE DI CAMPO

Venezuela chiama Italia. Ma il governo non risponde

Venezuela chiama Italia, ma da questa parte della cornetta non arriva alcuna risposta. Si sente, al massimo, litigare sullo sfondo. Salvini tuona contro Maduro, ma Di Battista difende il presidente socialista venezuelano. Intanto è l'Italia che blocca l'Ue. E Maduro scrive al Papa per chiedergli aiuto.

Editoriali 05_02_2019
La protesta per il Venezuela, a Pescara

Venezuela chiama Italia, ma da questa parte della cornetta non arriva alcuna risposta. Si sente, al massimo, litigare sullo sfondo. Si può rappresentare così lo scenario che si è delineato ieri, in occasione del secondo voto dell’Ue per poter prendere una posizione comune sul Venezuela, in rivolta contro il presidente Nicolas Maduro. L’Italia è l’unico Paese membro che, dopo aver chiesto invano di rinviare la decisione, ha bloccato il voto. Di fatto l’Italia si è schierata con Maduro, non per la prima, ma per la seconda volta in una settimana. Una posizione abbastanza netta da indurre Maduro a ringraziare pubblicamente il nostro governo.

E’ bene, prima di tutto, chiarire un punto fondamentale. Quel che sta avvenendo in Venezuela non è un colpo di Stato, ma una procedura prevista dalla stessa Costituzione venezuelana. La vittoria del presidente Nicolas Maduro, con elezioni giudicate illegali e boicottate da tutti i partiti dell’opposizione, è riconosciuta solo da Maduro stesso e da una Corte Suprema palesemente pilotata. E’ perfettamente comprensibile come, la maggioranza dei Paesi dell’Organizzazione degli Stati Americani ed ora anche la maggioranza dei Paesi dell’Ue (e tante altre democrazie in tutto il mondo) riconoscano una situazione di vacanza del presidente, una in cui a prendere il controllo, ad interim, è il presidente dell’Assemblea Nazionale (il parlamento): Juan Guaidó. La crisi, dunque, non è un braccio di ferro fra Donald Trump (che comunque non esclude l’uso della forza) e Nicolas Maduro (appoggiato soprattutto da Russia, Cina, Turchia e Iran), ma un braccio di ferro istituzionale, causato da un vero e proprio golpe elettorale di Maduro e alimentato dalle misere condizioni in cui versa la popolazione dopo un ventennio di “Socialismo del XXI Secolo”, analoghe ai tempi del collasso dell’Unione Sovietica.

L’Ue avrebbe preferito trovare una soluzione di compromesso: voto entro otto giorni o riconoscimento del presidente parlamentare venezuelano. Ma questa posizione è diventata impossibile, appunto, soprattutto a causa del veto italiano. Così come ieri, l’Italia si è opposta ad ogni forma di “ingerenza”. L’Ue è stata dunque costretta (da noi) a procedere in ordine sparso. Il riconoscimento formale di Juan Guaidó è giunto da Francia, Spagna, Germania, Regno Unito, Portogallo, Svezia, Danimarca, Austria, Olanda, Repubblica ceca, Lettonia, Lituania, Finlandia, Belgio e Lussemburgo.

Il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano aveva rimproverato al presidente francese Macron di essersi mosso unilateralmente, con il suo riconoscimento del presidente del parlamento venezuelano, contro la linea europea. Adesso, però, è il governo italiano l’unico a non voler riconoscere la legittimità del nuovo presidente ad interim. Una linea che va anche contro gli auspici del presidente della Repubblica (italiana, in questo caso) Sergio Mattarella. La situazione nel Venezuela, dichiarava ieri il capo dello Stato: “richiede senso di responsabilità e chiarezza su una linea condivisa con tutti i nostri alleati e i nostri partner dell'Ue. Non ci può essere incertezza né esitazione: la scelta è tra la volontà popolare e la richiesta di autentica democrazia da un lato e dall'altro la violenza della forza”. In serata, da Palazzo Chigi, è stata diffusa una nota rassicurante: “l'Italia appoggia il desiderio del popolo venezuelano di giungere nei tempi più rapidi a nuove elezioni presidenziali libere e trasparenti, attraverso un percorso pacifico e democratico, nel rispetto del principio di autodeterminazione”.

Ma sullo sfondo si sentono le urla della lite in corso. Una lite fatta di dichiarazioni informali e fuori dai denti del vicepremier Matteo Salvini, che scalpita e fa di tutto per prendere le distanze dalle scelte dei colleghi di governo pentastellati. “Non stiamo facendo una bella figura. Finito il mandato di Maduro, dittatore rosso, entra in carica il presidente della Camera, Guaidó”. Salvini ha incontrato esponenti della comunità italiana in Venezuela: “Ho ascoltato tutti i problemi di una comunità che vive in un regime che affama e terrorizza. Mi hanno parlato di negozi vuoti, ospedali in difficoltà, di 7mila casi di tortura documentati, di legami con narcotrafficanti. E ci sono 160mila italiani residenti in Venezuela che sono alla disperazione. Mi sono impegnato a difendere e sostenere democrazia, diritti, libertà e lavoro”. Salvini si è impegnato così. Ma Alessandro Di Battista, esponente del Movimento 5 Stelle, ma non membro del governo (e dunque più libero di esprimere la linea politica del partito) risulta altrettanto impegnato sul fronte opposto, a difesa del regime di Maduro. Su Facebook, con un lungo post che riecheggia tutti i temi cari all’anti-imperialismo militante. “Firmare l'ultimatum Ue al Venezuela è una str... megagalattica. È lo stesso identico schema che si è avuto anni fa con la Libia e con Gheddafi. Identico. Qua non si tratta di difendere Maduro. Si tratta di evitare un'escalation di violenza addirittura peggiore di quella che il Venezuela vive ormai da anni. E mi meraviglio di Salvini che fa il sovranista a parole ma poi avalla, come un Macron o un Saviano qualsiasi, una linea ridicola”.

Matteo Salvini gli ha ovviamente risposto su Twitter: “Di Battista ignora e parla a vanvera: non solo milioni di venezuelani, ma anche migliaia di italiani soffrono da anni la fame e la paura imposti dal regime di sinistra di Maduro. Prima tornano diritti, benessere e libertà in Venezuela, meglio sarà per il popolo”. Parla “a vanvera” o sposa scientemente il modello Maduro? Appena un anno e mezzo fa, una delegazione pentastellata di cui faceva parte anche l’attuale sottosegretario Manlio Di Stefano, era andata a Caracas, non certo per condannare il regime. Agli italiani in Venezuela che lamentavano le misere condizioni in cui versava il paese, la grillina Ornella Bertorotta rispondeva: “Pensate che anche in Italia si sta male, ci sono tanti giovani senza lavoro a causa delle scriteriate politiche del governo Renzi, abbiate un po’ di empatia. E diciamo che ci sono anche cose buone in Venezuela come il programma di musica nelle scuole”. Nel primo programma del M5S per le elezioni del 2018 si leggeva anche: “In due convegni abbiamo presentato alla Camera dei Deputati il modello dell'Alba Bolivariana e quello dei Brics come possibili alternative per i Paesi dell'Europa del sud rispetto all'austerità, alla disoccupazione e alla crisi economica prodotte dall'unione economica monetaria e dal Washington consensus”. Alba Bolivariana è precisamente il modello economico di Hugo Chavez, ereditato da Maduro: nazionalizzazioni, svalutazione della moneta “sovrana” e creazione di valute alternative controllate direttamente dalla politica, redistribuzione radicale delle proprietà, superamento della democrazia rappresentativa. “Dittatura socialista”, la definirebbe chiunque, ma Casaleggio, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel 2016, citava il Venezuela come esempio di “democrazia diretta”, perché mantiene l’istituto del “recall”, la possibilità di votare per richiamare il presidente. Con quanta libertà si voti, però, non è lecito chiederlo.

Fra Lega e Movimento 5 Stelle, dunque, non è in corso solo uno dei tanti screzi, su questa o quella riforma, su questa o quella opera pubblica. E’ in corso un braccio di ferro per una scelta di sistema. Perché, come una guerra fredda in piccolo, questa decisione di politica estera, con Maduro o con il parlamento venezuelano, è una scelta di campo. I pentastellati hanno fatto capire sin troppo chiaramente da che parte stanno. Salvini non ci sta, ma intanto il governo di cui il suo partito è parte integrante blocca anche tutto il resto dell’Ue. E nel Parlamento europeo, la Lega, pochi giorni fa, si è astenuta, non ha votato contro Maduro.

Guaidó attende con pazienza che la corrente cambi, nel suo ultimo appello, di ieri, si dice in contatto con “forze governative” e dichiara di essere fiducioso del fatto che l’Italia prenderà presto la decisione giusta. Maduro, invece, dopo aver ringraziato l’Italia, decide di rivolgersi sempre a Roma, ma dall’altra parte del Tevere: ha scritto a Papa Francesco, convinto che lo appoggi, che lo aiuti a rilanciare il dialogo. Molto probabilmente non perché voglia dialogare realmente con l’opposizione, ma perché è convinto che il dialogo gli serva per prendere tempo e conservare il potere. Il Vaticano, contrariamente alla Chiesa venezuelana (esplicitamente dalla parte dei democratici), ha sempre mantenuto una posizione “per il dialogo” e non si è mai espresso con una scelta di campo. Proprio come il governo italiano, ma senza i suoi litigi.