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OTTOCENTO DA RISCOPRIRE/13

Verga, la Lupa e il fascino dell'immaginazione

Tanta letteratura contemporanea deve riscoprire il fascino dell’immaginazione che sa viaggiare sulle scie dettate da poche parole dei grandi scrittori. Le grandi opere sanno dire e non dire, sanno qual è il limite oltre il quale può essere il lettore a viaggiare con l’immaginazione. Come ne La Lupa di Verga. 

Cultura 11_06_2017
La Lupa di Lattuada

La raccolta Vita dei campi, pubblicata nel 1880, presenta come tratto distintivo una spiccata sicilianità, che si manifesta in passioni forti, in gelosie che portano a duelli o addirittura all’omicidio, in paesaggi pieni di vita o assolati nella canicola estiva, negli abitanti popolani che abitano i paesi della costa o dell’entroterra, dediti alla pastorizia o all’agricoltura o alla pesca. Il lettore viene introdotto in medias res attraverso l’uso di un linguaggio particolare che si avvale di termini siciliani italianizzati, di proverbi dell’isola e di aspetti linguistici tipici del parlato. Con la regressione e l’uso del discorso indiretto libero Verga riesce, infine, a trasmettere l’impressione dell’impersonalità della narrazione. Lo scrupolo dell’oggettività del racconto non impedisce che nelle novelle sia forte anche la dimensione simbolica, tipica di un mondo ancestrale dove in un alone mitico e immutato nel tempo si incontrano storie particolari che incarnano valori, passioni e vizi di sempre.

Nella prima edizione della raccolta del 1880, pubblicata da Treves, compaiono otto novelle: «Cavalleria rusticana», «La lupa», «Fantasticheria», «Jeli il pastore», «Rosso Malpelo», «L’amante di Gramigna», «Guerra di Santi», «Pentolaccia». Risulta escluso, rispetto all’edizione attuale, il racconto «Il come, il quando e il perché», ritenuto dall’autore non omogeneo agli altri. 

La novella «La lupa» viene più tardi trasposta a livello teatrale e cinematografico. Due sono addirittura i film che ci raccontano la storia: quello diretto da Antonio Lattuada nel 1953 e l’ultimo girato da Gabriele Lavia nel 1996, ove Monica Guerritore interpreta i panni della protagonista. Celeberrimo è l’incipit: «Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna – e pure non era più giovane – era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così». L’autore costruisce attorno al personaggio un’aura infernale.

Lo stesso nome, attribuito alla donna dal popolo, sembra prelevato dall’Inferno dantesco dove la lupa rappresenta la cupidigia: anche la gnà Pina è «sazia giammai – di nulla». Il campo semantico legato alla lupa e al cane prosegue in tutto il racconto: lei è «sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata». Il popolo affianca a quella donna anche l’immagine del demonio: la lupa ha gli «occhi da satanasso» e, poi ancora, leggiamo che «il diavolo quando invecchia si fa eremita». Per questo la gente si fa il segno della croce quando vede quella lupa che non va mai in chiesa, «né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi».

Un giorno la Lupa si innamora di Nanni, giovane appena tornato dal militare. Prova a conquistarlo con la sua seduzione, ma il giovane non cede, perché vuole sposare la figlia di lei. Accade allora che la madre acconsente al matrimonio purché le venga ritagliato un piccolo spazio nella casa della futura coppia di sposi. A questo punto viene inserita la prima ellissi temporale del racconto. Sono addirittura trascorsi anni. Nanni e Maricchia si sono sposati, sono nati dei figli, la Lupa ha ottenuto di rimanere in casa con genero e figlia, mai desistendo dal proposito di conquistare il giovane. Un giorno riesce nell’intento, svegliando di soprassalto Nanni, stanco e addormentato in un fosso vicino ad una «siepe polverosa».

La grande magia del racconto sta nel sottaciuto e nel non raccontato, gran pregio di un autore come Verga che, al contrario di tanta narrativa contemporanea che ostenta il sesso e la morte, sa alludere e far immaginare. Dopo aver ottenuto quanto desidera, la Lupa se ne va via «riannodando le trecce superbe» e, poi, ritorna tante altre volte nell’aia per incontrare il genero. Nessuna ostentazione morbosa, nessuna indulgenza alla passionalità, ma grande capacità sintetica, che emerge in dialoghi teatrali rapidi presentati nel cuore della novella in cui Verga mette in scena madre e figlia che si accapigliano.

Maricchia apostrofa la Lupa con gli epiteti di «mamma scellerata» e di «ladra». Alla fine decide di rivolgersi al brigadiere per denunciare la madre. Nanni non cerca di discolparsi, anzi dichiara che «è la tentazione dell’inferno» ad indurlo ad un comportamento siffatto. Per questo preferisce andare in galera o morire piuttosto che cedere ancora alla seduzione della suocera. La Lupa, però, non vuole andarsene di casa fino a che non accade che Nanni, ricevuto un calcio da un mulo, rischia di morire e il prete rifiuta di portargli il viatico se la donna rimane nella casa col genero.

Solo quando la Lupa se ne va, Nanni si confessa, contrito e dispiaciuto per tutto quanto è accaduto. Magari fosse morto in quel momento, è il commento che compare nella novella, solidale a quanto probabilmente pensano tutti gli abitanti del paesino. Il giovane, invece, guarisce e la suocera torna a tentarlo. Nanni paga «delle messe alle anime del Purgatorio», in segno di penitenza fa «pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa». Infine, minaccia di ammazzare la Lupa. 

Ecco la scena finale: «Ei come la scorse da lontano, in mezzo a’ seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall'olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. - Ah! malanno all'anima vostra! - balbettò Nanni».

Ecco la magia di una storia che sa suscitare la nostra immaginazione! Anche la morte non è qui raccontata. Tutti si immaginano l’ira omicida di Nanni senza che l’autore la descriva. Ricordiamo tutti quell’endecasillabo dantesco che prelude al manifestarsi dell’amore di Paolo e Francesca: «Quel giorno più non vi leggemmo avante» oppure l’ottonario di Manzoni: «La sventurata rispose». Anche i due padri della lingua italiana decisero di tacere le vicende, consci del valore della letteratura e, nel contempo, della pericolosità della scrittura.

Come Paolo e Francesca sono caduti in tentazione alla lettura della storia di Lancillotto e Ginevra, allo stesso modo le vicende torbide della Monaca di Monza e di Gian Paolo Osio potrebbero sedurre i lettori al fascino del male. Dante e Manzoni non vogliono correre questo rischio per una questione morale. Ritengo che Verga taccia per altre ragioni. Nanni va incontro ad un destino segnato, succube di una donna che nella visione del popolo impersona il demonio stesso: l’omicidio è per lui l’unico mezzo che gli può permettere di liberarsi dalla prigione della passione trasgressiva e incestuosa per imprigionarsi alla fine nel carcere reale dove finiscono i trasgressori della legge.

Tanta letteratura contemporanea deve riscoprire il fascino dell’immaginazione che sa viaggiare sulle scie dettate da poche parole dei grandi scrittori. Descrivere tutto e varcare la soglia del vietato letterario significa spesso limitare la capacità del lettore di interagire con l’opera letteraria. Le grandi opere sanno dire e non dire, sanno qual è il limite oltre il quale può essere il lettore a viaggiare con l’immaginazione.