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EDITORIALE

Abolire il peccato? Ci provano da più di cento anni

Se attribuire a papa Francesco l'abolizione del peccato è semplicemente ridicolo, l'editoriale di Scalfari tocca un punto decisivo perché all'interno della Chiesa sono tanti che hanno di fatto abolito il peccato.

Editoriali 30_12_2013
Confessionale

«Gli scienziati moderni sono persuasi che ogni indagine debba necessariamente cominciare con un dato di fatto. Anche le guide religiose dell’antichità erano persuase che ciò fosse necessario. Loro cominciavano con il fatto del peccato, un fatto pratico come le patate. Un uomo poteva essere o meno lavato in acque miracolose, ma non c’era dubbio, in ogni caso, che volesse lavarsi. Ma ai nostri giorni certi leader religiosi di Londra, non dei semplici materialisti, hanno cominciato a negare non l’assai contestabile efficacia dell’acqua, ma l’incontestabile sporcizia. Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, che è l’unico aspetto della teologia cristiana che può veramente essere dimostrato. (…) Nella loro spiritualità quasi fastidiosa ammettono che Dio è senza peccato, una cosa che non possono vedere nemmeno in sogno. Ma negano praticamente il peccato nell’uomo, cosa che si vede per strada». Queste parole sono state scritte da G.K. Chesterton nel 1908. Ciò dimostra che «l’abolizione del peccato» è un qualcosa che tanti teologi perseguono da molto tempo al punto che già 105 anni fa questa tendenza si era già affermata. Ammesso e non concesso che papa Francesco davvero abbia abolito il peccato, come Eugenio Scalfari sosteneva ieri nella sua solita, lunghissima omelia domenicale, non avrebbe certo fatto una rivoluzione, come Scalfari invece pretende.

In realtà, come l’articolo di Massimo Introvigne pure dimostra, attribuire a papa Francesco l’intenzione di «abolire il peccato» è semplicemente ridicolo. Basterebbe ricordare che nell’intervista alla Civiltà Cattolica si è definito «un peccatore, al quale il Signore ha guardato», e ancora che nell’udienza dello scorso 20 novembre ha raccontato che «anche il Papa si confessa, ogni 15 giorni, perché anche il Papa è un peccatore». Del resto, seppure non ci fossero queste pubbliche affermazioni, basterebbe osservare che la Misericordia di Dio su cui papa Francesco tanto insiste ha senso proprio perché evidente è la realtà del peccato. Non ci fosse il peccato, sarebbe inutile anche la Misericordia.

La questione del peccato è centrale nelle vicende umane e nell’annuncio cristiano. Se c’è e contrassegna l’esistenza personale di ogni uomo e donna, allora l’annuncio del Salvatore chiama ognuno alla conversione, vale a dire a volgere lo sguardo a Dio. Questa è l’esperienza che da duemila anni fanno tutti i santi e aspiranti tali. Se invece il peccato non c’è o è comunque irrilevante ai fini della salvezza perché tanto il Signore perdona tutti a prescindere, allora è la Chiesa che deve inseguire il mondo, assecondarlo nei suoi desideri e nelle sue conquiste, limitandosi a fornire un servizio che appaga quel bisogno spirituale – nel senso generico del termine – che c’è in ogni persona. Questo è ciò che predicano non solo Scalfari e affini, ma anche tanti teologi e intellettuali cattolici, oggi molto più numerosi che al tempo di Chesterton.

L’ultimo esempio ce lo ha fornito il funerale del transessuale colombiano Andrea Quintero, svoltosi a Roma tre giorni fa. Ha guadagnato grandi titoli su tutti i giornali perché il direttore della Caritas di Roma, don Enrico Feroci, nell’omelia ha parlato di Andrea sempre al femminile, come il pensiero unico omosessualista impone. Scontato il plauso dell’onnipresente Wladimir Luxuria (Vladimiro Guadagno all’anagrafe) che ha parlato di «riconoscimento storico», nonché del ministro Cecile Kyenge e del sindaco di Roma Ignazio Marino. Ma è triste lo spettacolo di una Chiesa che non sa più distinguere tra peccatore – che va accolto e perdonato -  e peccato, che va invece sempre condannato (anche per evitare che altri cadano nello stesso errore). Quel pronome personale usato al femminile non è accoglienza né misericordia, indica soltanto complicità con il peccato, un sentimento inutile per il peccatore e dannoso per tutti gli altri.

In ogni caso è per questo che c’è quasi una ossessione nel voler presentare Francesco come un Papa di rottura, un vescovo di Roma come non ce n’erano mai stati, un Papa in totale discontinuità con il passato. E’ tale l’ossessione, anche nei media cattolici, che si scende francamente nel ridicolo. Pare ad esempio che sia stato papa Francesco a scoprire che Dio è Misericordia, dimenticando che è stato Giovanni Paolo II a istituire la festività della Divina Misericordia nel 2000 facendo conoscere a tutta la Chiesa santa Faustina Kowalska, ed ancora Giovanni Paolo II alla misericordia ha dedicato addirittura un’enciclica (Dives in Misericordia, 1980, quasi all’inizio del suo pontificato). E quando il 21 dicembre scorso papa Francesco si è recato all’ospedale pediatrico Bambin Gesù, un quotidiano cattolico gli ha dedicato la prima pagina titolando come se fosse la prima volta nella storia della Chiesa che si verificasse un evento del genere: ma al Bambin Gesù prima di Francesco ci sono già stati Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Non solo, sono tanti i vescovi cattolici che nelle loro diocesi fanno esattamente la stessa cosa.

Si potrebbe continuare a lungo, enumerando tutte le presunte novità di questo papato. Nessuno può negare una specificità di stile pastorale di papa Francesco rispetto ai suoi predecessori, ma questo vale anche per tutti quanti lo hanno preceduto. L’insistenza sulla discontinuità nasconde invece il desiderio di vedere la Chiesa rinunciare non già a dettagli legati al tempo e alla cultura, quanto al suo tesoro più prezioso, la Verità rivelata da Cristo. Da qui anche il tentativo di usare la pastorale come pretesto per cambiare la dottrina della Chiesa, protestantizzandola.

In tutto questo Scalfari non fa altro che cercare di assestare il colpo del ko, potendo contare sui tanti – anche prelati – che dall’interno della Chiesa perseguono lo stesso scopo. E, curiosamente, alcuni di loro sono anche assidui frequentatori delle pagine di Repubblica.