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Dottrina sociale
a cura di Stefano Fontana

DIBATTITO ANNOSO

Alla scienza un settore, alla politica il bene comune

Il Covid ripropone la questione del rapporto tra la scienza e la politica, tema molto caro alla Dottrina sociale della Chiesa, che ha sempre messo in guardia dalla politica che si presenta come scienza ed anche dalla politica che si fa guidare dalla scienza.

Dottrina sociale 29_04_2020

In questa fase di emergenza il governo italiano ha sempre detto che le decisioni sulle restrizioni alle libertà sono prese in base alle indicazioni del Comitato tecnico-scientifico. L’ultima parola spetta, si è detto, “agli scienziati”. Anche nell’avviare la cosiddetta fase 2, il Presidente del Consiglio ha adottato lo stesso principio e la stessa giustificazione per le decisioni prese. Tutto ciò ripropone la questione del rapporto tra la scienza e la politica, tema molto caro alla Dottrina sociale della Chiesa, che ha sempre messo in guardia dalla politica che si presenta come scienza ed anche dalla politica che si fa guidare dalla scienza. In queste due posizioni – la prima più estrema e la seconda più attenuta – la Dottrina sociale della Chiesa ha sempre visto un pericolo.

I cosiddetti “scienziati”, durante questa fase di coronavirus, hanno detto tutto e il contrario di tutto.  Non si è capito se la patente di immunità è scientificamente fondata o no, se il vaccino sarà necessario e risolutivo o inutile, se il caldo estivo farà sparire il virus o meno, se l’origine del virus è naturale o umana, se il virus vive sulle superfici per ben 72 ore o solo per due o tre ore. Ci sono stati scienziati a favore sia dell’uno che dell’altro corno di questi dilemmi. La prima constatazione riguarda quindi l’esperienza: la scienza in questo caso non ci ha dato certezze. Chi ha qualche anno sulle spalle ricorda però anche che anche in passato è stato così: quando scoppiò il caso Chernobyl si poté riscontrare la stessa incertezza della scienza. 

Se poi esaminiamo le moderne teorie sul sapere scientifico, tutte ci dicono che la scienza è un sapere ipotetico, che si fonda non su conoscenze certe ma su ipotesi di lavoro. La scienza è sempre un “costrutto” tra un punto di vista assunto senza essere dimostrato, ossia in via ipotetica, e una serie di dati raccolti alla luce di quel punto di vista. Questa visione, come è noto, è stata talmente spinta in avanti da sostenere una visione “anarchica” della scienza, come scrisse Fayerabend. Anche nulla concedendo a queste teorie estreme rimane che oggi largamente si pensa che la scienza proceda per “prova ed errore” e che non sia un sapere certo. Anche da questo punto di vista, diventa quindi problematico che la politica dica di basare le proprie decisioni sulla scienza. Piuttosto, come dice Popper, si dovrebbe dire che sia la scienza sia la politica procedono per “prova ed errore”, ossia che ambedue sono prive di verità certe.

Anche coloro che non accettano questa visione “relativista” della scienza, come per esempio chi scrive queste righe, deve tuttavia concordare sul suo carattere ipotetico, come del resto pensavano Platone, Aristotele e Tommaso. Ed anche sul suo carattere settoriale: la scienza assume una ipotesi di partenza con cui si ritaglia un ambito dei fenomeni da investigare. Quello della scienza è un sapere settoriale e particolare, mentre la politica implica uno sguardo d’insieme: per questo la scienza potrà sì fornire indicazioni alla politica di cui questa dovrà tenere conto, ma non potrà prendere le decisioni al suo posto né pensare di poterla guidare. La politica – quella vera – guarda l’intero (il bene comune), mentre la scienza guarda un settore.

È vero anche che continua ad esistere una visione positivista della scienza, secondo la quale essa è l’unico sapere veramente certo. Così pensando, diventa logico che la politica ne debba essere guidata. Nell’isola sognata da Francesco Bacone erano proprio gli scienziati a governare e la Casa di Salomone era il nostro Palazzo Chigi. L’Illuminismo assunse questa visione e sia il Despota illuminato che seguisse la luce della ragione scientifica, sia la Volontà generale che seguisse la luce della natura non potevano sbagliare. Anche il potere del comunismo si considerava “scientifico”, a suo mondo.

Nel caso specifico del coronavirus, poi, entra in campo il particolare statuto della scienza medica. Le scienze non hanno lo stesso livello di incertezza. La medicina è più incerta di altre. Aristotele la proponeva come esempio della virtù della “prudenza”, dato che essa deve fare incontrare le norme generali imparate sui manuali con il caso particolare, che è sempre unico e particolare. Per la medicina ancor più vale il principio secondo cui non sia essa a guidare la politica.

Uno dei tratti più specifici dell’azione politica in questa situazione da coronavirus è stato che si è giocato tutto sul blocco della vita di un intero Paese (quindi su una passività) piuttosto che su una azione diretta a configgere il nemico. Si è deciso di non uscire dalla trincea per evitare che il nemico ci colpisse, piuttosto che attaccare per sconfiggere noi il nemico.

Questa strategia politica è stata giustificata con presunte certezze scientifiche che invece non ci sono. Anzi ce ne sono altre che avrebbero consigliato percorsi diversi. Ciò accade quando la politica si rende – in buon o in cattiva fede – dipendente dalla scienza.