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LA MORTE DELL'INTELLETTUALE

Arbasino, l’intoccabile che diffuse il verbo Lgbt

Alberto Arbasino, morto il 22 marzo, è stato un’icona della cultura italiana. Per anni nessuno ha mai osato criticarne la sterminata produzione letteraria. Tranne Cesare Cavalleri che ne smontò il romanzo cult, Fratelli d’Italia, perché veicolava un “nichilismo patinato”, normalizzando l’omosessualità. Anche Testori e Pasolini rimproverarono Arbasino per la sua superficialità. Che era figlia di un mancato e vero confronto con il cattolicesimo. Ma forse l'Innominato...

Cultura 01_04_2020

Alberto Arbasino, tra le icone del mondo della cultura italiana dell’ultimo secolo, è morto domenica 22 marzo all’età di 90 anni. Elogi e commozione sono giunti da ogni dove. In piena emergenza da Covid-19, anche il presidente Mattarella ha voluto ricordare chi «ha impresso un segno nella letteratura italiana del Novecento lasciando un vuoto». È curioso però che in tanti anni nessuno abbia mai avuto il coraggio di fare un benché minimo appunto alla sua sterminata produzione letteraria. A tutti gli effetti l’intellettuale di Voghera risulta (trasversalmente) un intoccabile.

I pizzini arbasiniani

A punzecchiarlo ci provò Edmondo Berselli, che definiva Arbasino scrittore «di vertiginose superficialità» e che prendeva in giro il suo pallino di scrivere lettere ai giornali di cui, spesso, per via di rimandi e sottintesi, si capiva poco o nulla. «Insider di varie redazioni - ricorda Marco Belpoliti, giornalista che ha conosciuto bene Arbasino - raccontano dell’imbarazzo dei capiredattori di fronte al pizzino arbasiniano». Le letterine venivano messe in pagina lo stesso, ci mancherebbe. Nella rubrica delle lettere, chiaramente senza risposta.

Laddove non poté nessuno, arrivò Cesare Cavalleri, critico letterario da sempre fuori dal coro. Fu l’unico ad avere coraggio. Definì “panna montata” il romanzo cult di Arbasino, Fratelli D’Italia, uno spigliato catalogo di vizi, virtù, tic e manie di una certa Italia. Non l’avesse mai fatto! Per questa lesa maestà Repubblica gli scatenò contro una furiosa rappresaglia.

Repubblica vs Cesare Cavalleri

«Si tratta - scriveva nel 1994 il quotidiano di Largo Fochetti - di una nuova puntata dell’offensiva lanciata da alcuni critici e filosofi cattolici contro alcuni autori laici contemporanei. Fra i primi bersagli: Umberto Eco, Gianni Vattimo, Emanuele Severino e Sergio Quinzio». E ancora: «Cavalleri definisce Fratelli d’Italia un romanzo di panna montata, il prodotto principale del “nichilismo patinato che va tanto di moda nei salotti del chiacchiericcio snob”». Ora, al di là del fatto che un certo esasperato snobismo veniva rifiutato non di rado anche da altri (nel ’67 - ricorda il critico letterario Giuseppe Carrara - il pubblico fischiò sonoramente la messa in scena arbasiniana di «una scandalosa Carmen, con un Escamillo travestito da Batman e una Carmen che danzava mostrando ninnoli sadomaso»), per Repubblica, il punto veramente indigeribile del giudizio di Cavalleri, era il suo giudizio sul girovagare vuoto di due giovani omosessuali. Infatti la strigliata di Repubblica termina fragorosamente così: «Il libro, insiste Cavalleri, è inaccettabile perché offre spazio “al chiacchiericcio della combriccola di giovani omosessuali benestanti che passano di festival in festival, di cena in cena, con arguzie letterarie e musicali e birignao”. Dunque una condanna “morale” e a quanto pare non letteraria».

La letteratura e i valori

Ma è stato proprio l’arrendersi definitivamente al luogo comune per cui la letteratura non debba veicolare valori, offrire modelli formativi, a far sì che quella che Benedetto XVI chiamava “dittatura del relativismo” deflagrasse anche in ambito accademico e culturale. Cavalleri, dunque, aveva toccato un nervo scoperto.

Ma il tempo è galantuomo, e a suffragare la sua lettura delle cose arbasiniane sono giunti interessanti riscontri. Molti quotidiani, per esempio, hanno parlato di un “Arbasino icona camp”. Bene, Susan Sontag, filosofa americana, autrice del primo storico saggio sulla cultura camp, lesbica, va esattamente al punto rimarcato da Cesare Cavalleri. La Sontag, con un’osservazione scorrettissima e perentoria, scriveva nel suo saggio: «Il camp può cancellare la moralità. Promuovendo ciò che è bizzarro, neutralizza l’indignazione morale».

C’è stato addirittura chi in questi giorni ha scritto che Arbasino, omosessuale dichiarato, con la sua opera «inoculò con stile, nella piccola borghesia lombarda, il virus Lgbt+». Testuale. Ad affermarlo è Franco Buffoni, militante dei cosiddetti “diritti civili”, ma anche poeta, traduttore, docente di Letteratura anglo-americana e di Letterature comparate all’Università di Cassino, nonché curatore dei “Quaderni italiani di poesia contemporanea”. Non l’ultimo arrivato.

Il fatto che Arbasino si fosse dichiarato sempre contrario alle parate arcobaleno e più in generale ad un’esibizione caricaturale dell’omosessualità, non è evidentemente bastato affinché il “nichilismo patinato” intrinseco alla sua frivolezza decadente - per quanto colta e brillante - non avesse conseguenze. Il timbro ideale alla nostra lettura di Arbasino, iniziata in splendida solitudine dal direttore delle Edizioni Ares, l’ha apposto Oscar Giannino su Twitter: «All’inferno va chi ci crede, diceva Arbasino. Lui no, non ci credeva». A buon intenditor…

«Pasolini e Testori… così cattolici»

Per capire fino in fondo lo scrittore lombardo andrebbe meditata una sua risposta, limpida e sfacciata, riportata sul Corriere della Sera del 23 marzo da Aldo Cazzullo. Più che una risposta è una precisa direzione di marcia esistenziale. «Anonimo lombardo - affermava Arbasino - era un romanzo epistolarfrocesco da far sobbalzare, perché trattava l’omosessualità studentesca come una cosa normale, ovvia, com’era considerata a Oxford e a Cambridge». Per poi aggiungere: «Infatti fui rimproverato, e non per scherzo, da Pier Paolo e da Testori, che criticarono la mia leggerezza, la mia mancanza di sofferenza, di tormento. Non sapevo cosa rispondere. Forse dipendeva dal fatto che loro fossero così cattolici». E in quello sprezzante “così cattolici”, c’è tutta la sua malcelata idiosincrasia verso il cattolicesimo.

È evidente però che l’intellettuale di Voghera il cattolicesimo non abbia mai voluto conoscerlo veramente, continuando a equipararlo, in un mix di ingenuità e malcelata supponenza, alle regolette di un moralismo piccoloborghese e bacchettone di cui l’espressione «signora mia» era il perfetto compendio.

Se Arbasino parteggiava - sono parole sue - per quegli ambienti «indulgenti e ironici che vivevano la sodomia come divertimento», rivelando così di non voler fare i conti con sé stesso, dove sbagliava, se sbagliava, Cesare Cavalleri quando diceva che «la condizione omosessuale, sofferta e repressa in Carlo Emilio Gadda, drammatica in Giovanni Testori, autodistruttiva in Pier Paolo Pasolini, rimane canzonettistica in Arbasino»?

Gadda, l’Innominato e le campane

C’è un passaggio del libro che Arbasino dedica all’amico Gadda, L’ingegnere in blu (2008), a cui si aggrappa un delicatissimo Alessandro Zaccuri, scrittore e giornalista, per scongiurare l’ipotesi di un’impenitenza finale. Ipotesi dolorosissima. La scena descritta da Arbasino è di quelle forti. Gadda, morente, è sul suo letto, e fra gli amici che a turno gli leggono un capitolo dei Promessi Sposi c’è il suo discepolo Arbasino, a cui tocca proprio la notte dell’Innominato. «Giunto al “delirio passeggiero”, una delle sue espressioni frequenti - scrive Arbasino -, l’Ingegnere mi guardò fisso, dicendo solo: “E adesso, le campane”». Speriamo che nel trascrivere questo ricordo, Arbasino abbia avuto un fremito. Al Dio cattolico sarebbe bastato.