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Battaglia contro il razzismo (alla rovescia) nelle scuole

E’ in corso una battaglia contro il razzismo nelle scuole e nelle università americane. Le università discriminano scientemente in base all'etnia, credendo in questo modo di favorire la "diversità" vista come un valore in sé. L'amministrazione Trump sta ponendo fine a questa abitudine, con direttive che invertono la rotta impostata da Obama.

Educazione 09_07_2018
Harvard

E’ in corso una battaglia contro il razzismo nelle scuole e nelle università americane. No, non è il caso di pensare alla capanna dello zio Tom o a un altro caso di razzisti bianchi che impediscono l’ingresso delle scuole ai neri, come siamo abituati dai ricordi degli anni ’50. In questo caso, ad essere discriminati sono gli asiatici americani, che trovano molti più ostacoli sulla loro strada per essere ammessi alla prestigiosa università di Harvard. E quindi hanno fatto causa. L’amministrazione Obama aveva ignorato il caso, ma l’attuale amministrazione Trump ha deciso di andare a fondo. E ha annunciato, la settimana scorsa, che la scuola e l’università non devono più tener conto del colore della pelle, o della forma degli occhi, per ammettere o meno uno studente ai suoi corsi.

Il Dipartimento dell’Educazione, guidato dalla conservatrice Betsy DeVos, ha emanato una direttiva secondo cui le scuole e i college non devono più applicare criteri razziali per le loro selezioni. Sembrerebbe ovvio in un paese democratico che afferma l’uguaglianza di fronte alla legge, ma non è così scontato. Infatti, le direttive dell’amministrazione Obama, emesse fra il 2011 e il 2016, enfatizzavano l’elemento razziale. I funzionari dell’attuale amministrazione americana sono convinti che queste vecchie linee guida andassero ben oltre i precedenti su cui la Corte Suprema aveva emesso le sue sentenze a favore della “affirmative action” (detta altrimenti: discriminazione positiva), a vantaggio delle etnie più disagiate e svantaggiate. Dunque erano direttive sostanzialmente molto più ideologiche che legali. Al posto dei criteri di selezione suggeriti dall’era Obama, l’amministrazione Trump sta ripristinando le vecchie linee guida dell’amministrazione Bush, ispirate al concetto della neutralità razziale, per ammettere studenti ai corsi di istruzione sia elementare che superiore. Le linee guida di un’amministrazione non hanno forza legale. Tuttavia rappresentano il punto di vista legale dell’amministrazione: quale parte verrebbe appoggiata dalla Casa Bianca in caso di contenzioso. Gli istituti che non applicano le linee guida, dunque, rischiano maggiormente ispezioni ministeriali o la perdita di fondi pubblici federali. La decisione dell’amministrazione Trump capita in un periodo cruciale, proprio quando si sta scegliendo chi andrà a sostituire il giudice Anthony Kennedy alla Corte Suprema. Sul tema dell’affirmative action, Kennedy manteneva l’equilibrio e faceva da ago della bilancia fra i giudici progressisti (favorevoli) e quelli conservatori (contrari). Una maggioranza conservatrice potrebbe provocare un cambio di sistema.

Ma il motivo immediato di questa mossa è, appunto, una causa che vede contrapporsi un gruppo di candidati asiatici e l’università di Harvard. Una storia iniziata nel 2014, quando gli studenti in questione, sentendosi discriminati per motivi razziali, hanno sporto querela contro la prestigiosa accademia tramite l’associazione non profit Students for Fair Admission (studenti per un’equa ammissione). La battaglia legale è andata avanti a rilento e, sotto l’amministrazione Obama il Dipartimento dell’istruzione ha deciso di non procedere con un’indagine. Con l’amministrazione attuale, invece, la causa ha ripreso quota, è partita un’indagine ministeriale e a ottobre andrà a processo. Il rapporto dell’accusa ha mostrato al pubblico quali siano i criteri di ammissione e quanto siano arbitrari. Il giudizio su ogni studente è diviso in quattro parti: un voto accademico, uno extracurricolare, uno atletico e uno “personale”. Alla voce “personale” si cela la discriminazione, perché i candidati asiatici, che pure avevano eccellenti punteggi accademici, extracurricolari e atletici, hanno tutti preso pessimi punteggi nell’ultima sezione. Che è puramente “personale”, appunto, riguarda il carattere dello studente, come la valutazione della sua “positività”.

Sempre secondo l’accusa, c’è un’analisi del 2013, commissionata da Harvard ed eseguita dal suo Ufficio di Ricerca Istituzionale, che dimostra come i candidati asiatici-americani costituirebbero il 43% della popolazione degli studenti se l’ammissione fosse basata solo sui voti accademici. Un perito di parte, il professore di economia Peter Arcidiacono, della Duke University, ha calcolato che un candidato asiatico con il 25% di probabilità di essere ammesso, aumenterebbe le sue chance al 36% se fosse un bianco, al 75% se fosse un ispanico e al 95% se fosse un afro-americano. Ovviamente si tratta di una perizia di parte. Ma il problema è che, protestando, sia l’opposizione che le associazioni e i sindacati che si oppongono al nuovo corso di Trump, ribadiscono che la scelta su basi razziali è… un bene.

Lo dice chiaro e tondo Nancy Pelosi, capogruppo dei Democratici alla Camera: “Respingere le vitali linee guida sulla affirmative action, offende i valori della nostra nazione – e inoltre accusa Trump di – cogliere un’altra occasione per attaccare le comunità di colore”. Anurima Bhargava, che nell’amministrazione Obama era a capo della sezione sui diritti civili nelle scuole del Dipartimento di Giustizia, ritiene che le direttive della sua amministrazione non siano mai andate al di là della legge. Ma perché: “La legge non è mai cambiata e la Corte Suprema, per due volte, ha sentenziato a favore dell’importanza della diversità”. Ted Mitchell, presidente dell’American Council on Education, associazione di presidi universitari, dichiara apertamente che: “In un momento in cui nella nostra società cresce sempre più la diversità e la necessità di avere rapporti con individui dal passato diverso è di importanza vitale, il governo non dovrebbe intralciare i college e le università nel loro sforzo di costruire campus sempre più inclusivi”.

Si deve proteggere la “diversità”, dunque, al di là del merito degli studenti. Dai progressisti odierni, la diversità è vista come un valore in sé: più etnie sono rappresentate in una classe o in un’aula universitaria, più si è convinti che la cosa in sé arricchisca l’esperienza degli studenti e li incoraggi a combattere contro la segregazione. “Biodiversità” è un concetto che si applica alle piante e agli animali. E c’è una sola teoria che applica gli stessi criteri usati per le piante e gli animali anche agli uomini: è il razzismo.