Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Galdino a cura di Ermes Dovico
LONDRA

Brexit: non si esce (interi) dall'Unione Europea

Il governo May, nel Regno Unito, ha formalizzato la richiesta all’Ue di rinviare al 30 giugno la data di scadenza della Brexit (uscita dall’Ue). Si tratta del secondo slittamento in avanti. Il pubblico europeo assiste esilarato alla "commedia grottesca" di Londra. Ma a pensarci bene, non c'è proprio nulla da ridere. 

Editoriali 06_04_2019
Camera dei comuni del Parlamento britannico

Il governo May, nel Regno Unito, ha formalizzato la richiesta all’Ue di rinviare al 30 giugno la data di scadenza della Brexit (uscita dall’Ue). Si tratta del secondo slittamento in avanti. Prima il “divorzio” avrebbe dovuto consumarsi il 29 marzo, poi Theresa May ha chiesto il rinvio per il 22 maggio, infine al 30 giugno. Ogni data ha il suo significato: il 22 maggio era il giorno prima delle elezioni europee. Il Regno Unito, dunque, ritirandosi, avrebbe rinunciato alle urne per i suoi seggi al Parlamento europeo. Il 30 giugno, data ultima, è il giorno precedente all’insediamento del Parlamento europeo. Il significato è lo stesso, ma con una complicazione in più: se il Regno Unito non trova un accordo di uscita entro un tempo utile, nel suo territorio dovranno tenersi comunque le elezioni europee. Scartata a priori l’ipotesi di un’uscita dall’Ue senza accordi di separazione (con voto parlamentare, grazie a una risicatissima maggioranza di 1 solo voto), il rischio maggiore per gli inglesi è quello di restare dentro l’Ue, anche contro voglia, per i prossimi cinque anni. Perché è difficile anche solamente concepire una Brexit ad elezioni già fatte e a seggi britannici già assegnati nel Parlamento di Strasburgo. Cinque anni di permanenza nell’Ue darebbero il tempo a un fronte anti-Brexit di riorganizzarsi e indire un secondo referendum. Se vincesse il fronte europeista, sarebbe l’ulteriore dimostrazione che nell’Ue si è liberi di votare, ma spinti a ripetere il voto finché non esce il risultato desiderato da Bruxelles.  

La Brexit viene presentata dai media italiani come una grande commedia grottesca. Il pubblico sembra molto divertito da questo spettacolo del Parlamento britannico che vota, dibatte, manda in crisi il governo, si lacera. Il pubblico ride, applaude, gongola, si sente più intelligente dei sudditi britannici, con non poco senso di rivalsa sui “pragmatici” e “flemmatici” inglesi che si scoprono pasticcioni. Poi ascolta i “maestri”, i vari Monti, i Prodi, ma anche gli editorialisti di tutti i maggiori quotidiani, che spiegano la morale della commedia: i sudditi britannici hanno abusato del loro diritto di voto. Perché l’Ue non si può votare, non si deve scegliere: va accettata, è il futuro. Gli inglesi l’hanno rifiutato: si meritano il caos.

Questa rappresentazione della Brexit spiega bene le ragioni … della Brexit stessa. L’elettorato britannico, lungi dall’essere ingannato, frodato o circuito dai sostenitori dell’uscita, ha sempre avuto il timore che l’Ue potesse trasformarsi in uno Stato unitario continentale, da cui non è possibile uscire. Inutile fingere di non sapere che il Regno Unito ha combattuto secoli di guerre contro la Francia assolutista prima e rivoluzionaria poi, due guerre mondiali contro la Germania ed una guerra fredda contro l’Urss per impedire un’unificazione del continente europeo sotto una potenza egemone. Il voto della maggioranza inglese per la Brexit, tutt’altro che estemporaneo, riflette questa lunga tradizione: è sempre stato nell’interesse britannico, nazione insulare priva di grandi poteri sul continente, preservare un’Europa plurale, in cui sopravvivono anche le piccole nazioni.

A questa aspirazione, l’Ue sta contrapponendo un gioco politico per impedire l’uscita del Regno Unito, o per consentirlo solo a condizioni durissime, praticamente inaccettabili. Dimostrando una scaltrezza politica degna di un Machiavelli, il team negoziale europeo è riuscito a spaccare la maggioranza parlamentare britannica, che si regge solo sul fragile equilibrio fra conservatori e unionisti irlandesi. Ha posto dunque, come condizioni fondamentali, l’accettazione di una frontiera aperta fra l’Irlanda del Nord e la Repubblica di Irlanda e la separazione de facto (con un diverso trattamento) della prima dal Regno Unito. Una condizione che, come a Bruxelles, sanno, non può essere accettata dagli Unionisti, né dai conservatori meno inclini a compromessi al ribasso. E’ su questo che si basa un accordo fra il governo May e Bruxelles “che non ha alternative” e che è stato bocciato per tre volte dal Parlamento britannico. L’accordo, in realtà, non ha alternative perché l’Ue non vuole prenderle in considerazione. Sono state votate, nel Parlamento di Londra, otto sue versioni emendate (tutte bocciate) che introducevano, o scenari-limite o cambiamenti pressoché irrilevanti all’accordo principale. Puntando i piedi su questa bozza l’Ue ha ottenuto quel che desiderava: mandare in crisi il processo di Brexit. Al tempo stesso, sia l’Ue che la stampa europeista britannica, stanno alimentando da due anni la paura di un’uscita senza accordo. Vere o gonfiate che siano le stime sulle perdite economiche, persino umane, di una “hard Brexit”, gli inglesi hanno iniziato a temerla come una guerra, o una calamità naturale. Il Parlamento l’ha esclusa, privandosi di una ultima carta che avrebbe potuto essere giocata al tavolo negoziale (“Meglio nessun accordo che un cattivo accordo”).

C’è di che esser fieri di una classe politica europea che sta riuscendo a piegare il Regno Unito alla sua volontà, dopo un referendum che l’ha rifiutata? Lo potremmo solo se ci considerassimo cittadini di un nascente Stato unitario europeo. Perché solo uno Stato unitario ha interesse a mantenere l’integrità del suo territorio e a reprimere tentativi di secessione. Se l’Ue fosse realmente una libera comunità di nazioni (come pretende ancora di essere), il comportamento di Bruxelles sarebbe differente: capire i propri errori, comprendere che il processo di centralizzazione è andato troppo oltre e troppo in fretta, mantenere buoni rapporti con lo Stato che esce, garantire maggiori autonomie e ulteriori vantaggi agli Stati membri che restano, così da esercitare una rinnovata attrazione. L’Ue, al contrario, si sta comportando da Stato unitario, anche se non lo è. Sta mirando all’obiettivo di massimizzare il danno a un paese membro che chiede di uscire, per lanciare l’avvertimento a tutti coloro che ne vorrebbero seguire l’esempio. Se questo avviene con un Regno Unito che era già ampiamente autonomo (con la sua moneta, le sue frontiere e nessun vincolo finanziario come il fiscal compact), a maggior ragione avverrebbe in paesi più vincolati, come il nostro. In futuro è probabile che ci attenda un’Ue da cui non sarà più possibile separarsi, nella buona e nella cattiva sorte. E dunque non è molto divertente, questa commedia.