Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Sant’Agnese da Montepulciano a cura di Ermes Dovico
CONTINENTE NERO

Centrafrica al voto. Ma è già quasi guerra civile

Domani centrafricani alle urne per eleggere il presidente. Ma i tre quarti del Paese sono nelle mani delle milizie armate, sia Seleka (islamici) che Anti-Balaka (milizie di autodifesa). Voci di colpi di Stato dell'ex presidente Bozize alimentano la tensione

Esteri 26_12_2020
Centrafrica, milizie

Domenica 27 dicembre si vota nella Repubblica Centrafricana per eleggere il capo dello stato e rinnovare il parlamento, ma non c’è la benché minima possibilità che l’esito del voto esprima davvero la volontà della popolazione e porti alla soluzione del conflitto che da anni la attanaglia. La Repubblica Centrafricana è un piccolo Paese di circa sei milioni di abitanti, benedetto, come molti altri Stati africani, da terre fertili e abbondanza di materie prime, tra cui diamanti e oro. Ma dall’indipendenza, ottenuta nel 1960, non ha conosciuto mai democrazia, pace e sviluppo reali. Quando negli anni 90 del secolo scorso la studiosa camerunese Axelle Kabou ha intitolato E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo? un suo libro, contestatissimo perché attribuisce interamente agli africani la responsabilità dei disastri economici e sociali dei loro Paesi, il caso di questa ex colonia francese era già allora la miglior prova di quanto avesse ragione. Il Paese era in rovina, devastato da colpi di Stato, governi autoritari, corruzione sfrenata. Per dieci anni, dal 1966 al 1976, un presidente al potere grazie a un golpe, Jean-Bedel Bokassa, si era autoproclamato addirittura imperatore. Durante una sontuosa, grottesca cerimonia si era cinto il capo con una corona d’oro massiccio tempestata da 5.000 diamanti. Di lui, come di alcuni altri feroci dittatori africani, si dice che praticasse persino il cannibalismo. Si assicurava, questo è dimostrato, la complicità dell’allora presidente francese Valéry Giscard d’Estaing a suon di mucchietti di diamanti.

Dopo di lui le cose non sono andate meglio: altri colpi di Stato, altri regimi brutali e irresponsabili che, quando si parla di Africa, ormai ci si è rassegnati a chiamare, con un eufemismo, “democrazie imperfette”. Di cannibalismo si è di nuovo parlato negli ultimi anni, questa volta accusandone milizie e gente comune, da quando l’ultima guerra civile, tuttora in corso, ha ulteriormente accentuato le divisive appartenenze etniche e religiose, portando il Paese sull’orlo di una guerra genocida: appartenenze etniche, quelle tradizionali tra tribù di pastori e di agricoltori aggravate dalla presenza di enormi mandrie di bestiame per le quali sono necessari pascoli sempre più estesi; e religiose, lo scontro tra la minoranza musulmana e la maggioranza cristiana, esasperato dalla crescente influenza dell’integralismo islamico lì come in tanta parte dell’Africa sub-sahariana.

La crisi attuale è iniziata nel 2013 con un colpo di Stato realizzato da una coalizione di milizie islamiche chiamata Seleka, rafforzate da truppe straniere, che hanno deposto il presidente François Bozize. Nel 2016, nonostante il ripristino delle istituzioni democratiche, gran parte dei Seleka ha continuato a combattere, infierendo soprattutto sui cristiani. Prive di protezione per l’inerzia dell’esercito governativo e le deludenti prestazioni della missione Onu di peacekeeping Minusca, istituita nel 2014, molte comunità hanno iniziato a organizzarsi per difendersi: sono nate così le milizie anti-Balaka, con il tempo sempre più aggressive e violente anch’esse. I combattenti hanno raggiunto livelli di ferocia e crudeltà nei confronti della popolazione civile mai visti prima nel Paese. Le speranze di pace avventatamente alimentate dalla Comunità di sant’Egidio, che nel 2017 ha riunito a Roma alcuni dei contendenti e li ha persuasi a firmare un accordo, sono state deluse. Il cessate il fuoco concordato a Roma non è mai entrato in vigore neanche per un giorno. All’epoca il clero centrafricano non si era fatto illusioni sull’esito della mediazione italiana. Al di là del modo discutibile con cui le trattative erano state condotte, sapeva, e lo disse, che i “signori della guerra” non avrebbero deposto le armi rinunciando al controllo del territorio nazionale e agli introiti che ne ricavano.

Oggi tre quarti del Paese continuano a essere in mano a gruppi armati Seleka e anti-Balaka. È in queste condizioni che i centrafricani andranno alle urne. Il presidente in carica Faustin-Archange Touadéra si è ricandidato. Contro di lui si è presentato l’ex presidente Bozize, rientrato dall’esilio alla fine del 2019. Ma il 3 dicembre la Corte Costituzionale ha deciso che la sua candidatura è inaccettabile perché Bozize non soddisfa i requisiti morali richiesti, dal momento che nel 2014 le autorità centrafricane lo hanno accusato di crimini contro l’umanità e incitamento al genocidio per presunto sostegno agli anti-Balaka. La sua esclusione ha fatto precipitare la situazione. Bozize ha ancora molti sostenitori, specialmente nell’esercito e nell’etnia più numerosa, i Gbaya.

Dal 12 dicembre, con l’inizio della campagna elettorale, si sono moltiplicati gli scontri. Il 18 dicembre i tre maggiori gruppi armati, che hanno formato un'alleanza chiamata Coalizione dei Patrioti per il Cambiamento e chiesto agli altri gruppi di aderirvi, hanno invitato i loro sostenitori a “rispettare scrupolosamente l’integrità della popolazione civile”, ma intanto dei gruppi antigovernativi hanno iniziato ad avanzare verso la capitale e hanno preso il controllo di diverse città. Si è sparsa la voce che Bozize stesse organizzando un colpo di Stato. La notizia è stata smentita dal suo portavoce, ma la tensione non si è allentata, al contrario. L’opposizione ha chiesto il rinvio del voto. Il governo ha replicato che l’ordine sarà mantenuto dall’esercito, dagli oltre 11mila caschi blu della Minusca, da centinaia di militari inviati dal Rwanda e da centinaia di “istruttori militari” russi, integrati nei giorni scorsi da 300 nuovi arrivi su richiesta del governo centrafricano.  

La Russia da alcuni anni ha intensificato i rapporti bilaterali con il Paese. Questo fa dire ad alcuni osservatori che quella in corso in realtà è una guerra tra la Francia, ex potenza coloniale, e la Russia, ovviamente per l’accesso alle risorse minerarie del paese. Ma le cause all’origine del malessere del Paese sono altre, tutte interne. Come sempre, soggetti esterni in effetti ne approfittano e ai leader politici locali fa comodo riversare su di loro responsabilità e colpe.