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DOCUMENTO

Chi manipola le parole del Papa. E perché

Sempre più frequentemente, le parole di papa Bergoglio sono interpretate dai media di ispirazione anticattolica (cioè da quasi tutti i media purtroppo) come espressione della volontà di riformulare in modo radicale la dottrina cristiana...

Ecclesia 18_09_2013
Papa Francesco

Noi cattolici sappiamo che i discorsi, formali o informali, di un Papa non possono che avere di per sé un significato e un senso di autentico “magistero”, ossia di autorevole testimonianza resa alla verità rivelata, che la Chiesa ha il dovere di custodire e annunciare in ogni epoca e a ogni persona. Ma constatiamo che, sempre più frequentemente, le parole di papa Bergoglio sono interpretate dai media di ispirazione anticattolica (cioè da quasi tutti i media purtroppo) come espressione della volontà di riformulare in modo radicale la dottrina cristiana. L’entusiasmo e l’apparente consenso che accompagnano e seguono i discorsi e i gesti di papa Francesco derivano proprio dall’immagine di “riformatore”, anzi di “rivoluzionario” che i media pretendono di imporre all’opinione pubblica.

In questa epoca travagliata della storia della Chiesa, quando viene meno tra i cattolici la certezza della fede e la stessa conoscenza dell’autentica dottrina della Chiesa, questa immagine di un Papa di “rottura” sta provocando un sempre maggiore sconcerto tra quei fedeli, che, privi talvolta di altre fonti di informazione (come può essere La Nuova Bussola Quotidiana), inevitabilmente prendono per buone queste interpretazioni forzate e interessate e finiscono per credere (chi con rammarico, chi con soddisfazione) che davvero questo Papa stia mettendo da parte la tradizione dogmatica della Chiesa e stia dando ragione ai “teologi del dissenso” e ai “profeti” di una nuova Chiesa, non più gerarchica ma edificata “dal basso”. 

È quanto è successo con le dichiarazioni rilasciate dal papa Francesco ai giornalisti sull’aereo che li riportava in Vaticano dopo la Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro. Poi è successo di nuovo, recentemente, con la lettera inviata alla Repubblica in risposta alle otto domande di Eugenio Scalfari. Secondo costui, le parole di papa Bergoglio in quella lettera sarebbero «al tempo stesso una rottura e un'apertura; rottura con una tradizione del passato, già effettuata dal Vaticano II voluto da papa Giovanni, ma poi trascurata se non addirittura contrastata dai due pontefici che precedono quello attuale; e apertura ad un dialogo senza più steccati».

I cattolici più avvertiti sanno bene che cosa significa, in bocca a intellettuali come Scalfari, la parola   “dialogo”. Per il fondatore di Repubblica e per tanti altri atei professi (“devoti” e non) il termine “dialogo” sta a significare, per quanto riguarda la Chiesa, il riconoscimento della ragionevolezza del rifiuto della fede da parte degli anticattolici, unitamente all’abbandono di ogni tentativo di apologetica della fede medesima. Mentre, per quanto riguarda gli anticattolici, il dialogo consisterebbe nell’ammettere (bontà loro!) che la fede cristiana può essere “tollerata” dal mondo moderno come espressione del mai definitivamente scomparso “senso del sacro”, soprattutto se rinuncia al suo tradizionale “fondamentalismo” e accetta i principi dell’umanesimo laico e filantropico. Su entrambi i versanti –  ossia, tanto per quello che si richiede alla Chiesa quanto per quello che sono disposti a concedere gli anticattolici – questo concetto di  “dialogo” parte dal presupposto esplicito che tutte le opinioni siano relative (ossia che valgano solo qualche volta e per qualcuno) e dal presupposto implicito che i principi dell’ideologia relativistica (il razionalismo critico, il pragmatismo, l’ermeneutica, il “pensiero debole”) costituiscano invece una “verità assoluta”, una conquista del pensiero critico che non si può più rimettere in discussione: questi principi, come ripete Scalfari, sono l’anima stessa della modernità.

In definitiva, il «dialogo senza steccati» che, nell’interpretazione di Scalfari, papa Bergoglio avrebbe finalmente avviato, significa queste due cose:
1) che  la Chiesa riconosce al relativismo la rappresentanza unica e qualificata del mondo moderno, e nei suoi confronti rinuncia a ogni condanna, persino a ogni critica (così si abbatterebbero, da parte della Chiesa,  gli “steccati”); e
2) che i rappresentanti di questo mondo riconoscono alla Chiesa il diritto di professare la fede cristiana, a patto che rompa con il passato, ossia con la Tradizione ecclesiastica (dove l’enunciazione del dogma era logicamente connessa alla denuncia degli errori che vi si oppongono) e rinunci a ogni pretesa di verità assoluta. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole: sono secoli che in tutto l’Occidente le forze culturali di ispirazione massonica adottano questa tattica nel tentativo di neutralizzare la missione della Chiesa, che consiste appunto nella testimonianza della verità rivelata da Dio.

Lo aveva fatto notare già La Nuova BQ del 13 settembre scorso con un articolo di Tommaso Scandroglio (Scalfari, un problema di coscienza), il quale si sofferma in particolare sul commento di Scalfari alle parole del Papa sulla coscienza, e si domanda: «Sembra proprio che l’attuale Pontefice abbia solo ribadito la dottrina cattolica su questo punto. Ma perché Scalfari sostiene invece che una tale frase del Papa sulla coscienza “non si era mai sentita finora dalla cattedra di San Pietro”?».  La risposta – scrive Scandroglio – è che si vorrebbe imporre all’opinione pubblica questa interpretazione: «Papa Bergoglio è il papa buono, dunque progressista, non conservatore, vicino ai poveri, non legato all’astratta dottrina così nemica della felicità degli uomini ma più attento alle nostre necessità materiali, più umanista che teologo, più versato al lato pratico che a quello teorico, che nutre più simpatia per il dialogo e le domande che per i dogmi e le risposte assertive. Insomma un tipo ok per Repubblica. Ma se è buono non può che dire cose che la Chiesa – da sempre cattiva – non ha mai detto. E dunque il suo concetto di coscienza non può che sposarsi appieno con la modernità e la laicità, le quali – per dirla con Thomas Hobbes – affermano che bene e male sono nomi che significano i nostri appetiti e le nostre avversioni».

Voglio però aggiungere a queste giustissime considerazioni un rilievo che mi sembra necessario. Quello che all’ideologia laicista interessa in primissimo luogo non è la questione del bene e del male ma la questione della verità. Quando di discute del bene e del male – e sulla prassi sociale che queste categorie possono ispirare – la dialettica culturale ha già trovato tutti gli espedienti retorici per imprigionare il discorso nella vacuità dei concetti astratti e del buonismo sentimentale (il rispetto per le diversità, l’amore, la pace, l’unità), che a parole trova tutti d’accordo perché vuol dire tutto e il contrario di tutto.

Quando si vuole un confronto senza ipocrisie si deve riportare il discorso alla concretezza degli enunciati chiari e precisi, tali da escludere ambiguità o equivoci in quanto chiamano in causa il principio di non-contraddizione, senza il quale non c’è logica alcuna ma solo sofismi. Se il confronto è sulla verità (assoluta) della Rivelazione, tutti sono obbligati ad accettare o a rifiutare responsabilmente gli enunciati della  fede. È Cristo stesso che lo esige quando dice  di essere «la Via, la Verità e la Vita» e aggiunge: «Chi non è con Me è contro di Me. Non si può servire Dio e Mammona». Per questo dico che la morale e l’ortoprassi cristiana non si possono presentare come se fossero fondate sulla “volontà di credere” (il «will to believe» di William James): vanno presentate come fondate sulla verità naturale (la recta ratio) e sulla verità rivelata, formalizzata nel dogma della Chiesa cattolica. Quindi l’unico discorso sensato è quello che riguarda l’ortodossia.

Ben consapevole di questo, La Repubblica strillava con un titolone in prima pagina, che «il Papa ha finalmente smentito che ci sia una verità assoluta». È proprio questo il danno peggiore che la manipolazione operata da Scalfari della lettera del Papa può aver provocato alla fede cristiana: far credere che la Chiesa cerca di farsi accettare dal “mondo moderno” rinunciando alla pretesa di proporre una verità in senso “forte”, sia per quanto riguarda la conoscenza (per fede) dei misteri soprannaturali che per quanto riguarda la conoscenza (per esperienza e per ragionamento) dei principi morali e religiosi di ordine naturale.

Il Papa ha parlato della coscienza, ma non si può interpretare questa nozione fondamentale della dottrina cristiana in termini irrazionalistici, come se Bergoglio volesse contraddire la dottrina della Chiesa sull’argomento. I documenti del Magistero parlano della coscienza come atto della “retta ragione” che è capace di conoscere la verità sull’uomo, sul mondo e su Dio, e dunque non come  il momento in cui ogni individuo si “crea” una “sua” verità, sganciata dal riferimento oggettivo a Dio e alla legge naturale.

Il Concilio afferma: «Quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna (Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n. 16), e il beato Giovanni Paolo II precisa ulteriormente: «All'affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l'affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l'imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di “accordo con se stessi”, tanto che si è giunti ad una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale» (enciclica Veritatis splendor,  n. 32). Ho sottolineato in queste due citazioni il termine “conoscenza” (con il corrispondente termine negativo, “ignoranza”, e con i termini derivati, come “giudizio” e “verità”) proprio per evidenziare che la partita si gioca sul terreno della conoscenza, e la verità altro non è se non la qualità dell’atto di conoscenza (il giudizio) che raggiunge il suo scopo. 

Non è sfuggita questa dialettica a Giuliano Ferrara, che non è un anticattolico di stampo volterriano come Scalfari ma come questi è convinto che il dogma cattolico non sia la verità (assoluta) rivelata da Dio per la salvezza dell’uomo. Ecco cosa scrive il direttore del Foglio: «Ratzinger voleva che la ragione diventasse più grande e meglio capace di percepire il suo limite, che è il mistero. L’Io e le sue voglie sono l’irrazionale moderno onnipotente, il Relativismus con i suoi profili filosofici ed etici. Papa Francesco scrive a Scalfari, che gli aveva chiesto lumi sulla salvezza per un non credente, rassicurandolo: la verità cristiana è una relazione, e alla fine quel che decide è l’amore di Dio per noi e attraverso di noi, insomma la coscienza. Accettare la verità rivelata o sottoporla a critica razionale, dire le ragioni della fede anche nello spazio pubblico, costruire un ponte tra Atene e Gerusalemme, danzando sul baratro dell’assoluto, diventa una variabile minore se il divino si autocomunica, se è prospettiva immanente e persona nella relazione con l’altro» (Il Foglio, 13 settembre 2013).

Al contrario, i commenti di alcuni intellettuali cattolici e di alcuni esponenti dell’episcopato mi sono sembrati fuori luogo, perché concedono a Scalfari proprio la pregiudiziale relativistica. È vero che hanno respinto l’interpretazione dei discorsi di Bergoglio come “rivoluzionari”, ma non hanno chiarito gli equivoci rispetto al tema centrale, che è quello della verità. Ad esempio, mons. Bruno Forte ha dichiarato alla Radio Vaticana: «In questa lettera, Papa Francesco dice cose bellissime ma che appartengono totalmente alla fede, alla tradizione della Chiesa. A cominciare da quel punto che ha suscitato qualche stupore, quando dice che non si deve parlare di assolutezza in rapporto alla verità cristiana, perché la verità non è absoluta, non è sciolta, separata, ma è una verità che è relazione, amore in se stessa – Trinità Santa – e nel rapporto con gli uomini».

Alla tradizione della Chiesa non appartiene affatto l’adozione di categorie filosofiche relativistiche, sia antiche (la Sofistica, Pirrone) che moderne (Hegel). Se non si riconosce che alcune verità naturali – quelle che permettono di comprendere e di accettare la Rivelazione – sono assolute (anche se l’uomo può talvolta smarrirle, potendo però sempre recuperarle), e soprattutto se non si riconosce che sono assolute le verità soprannaturali, rivelate da Dio, allora non ci sono discorsi sentimentali che possano rimediare alle interpretazioni abusive che si fa delle parole e dei gesti di papa Bergoglio.

Ma, a proposito di interpretazioni, perché la lettera di papa Francesco ha potuto essere interpretata male? Perché le sue parole sulla verità hanno potuto essere usate come adesione al relativismo? La risposta sta nel fatto che un testo come quello, o anche altri suoi discorsi occasionali, sono ben diversi dai documenti del Magistero, che vengono elaborati individualmente o collegialmente in vista di un insegnamento che impegni l'infallibilità;  non hanno cioè quelle caratteristiche formali (di struttura sintattica e di riferimenti espliciti alle premesse teoretiche e alle fonti documentarie) che rendono in una qualche misura evidente il significato del testo e il senso del contesto. Ma ciò non  toglie che si debba intervenire nel dibattito pubblico per opporre a un’interpretazione abusiva un’interpretazione corretta.

L’ermeneutica dei discorsi occasionali del Papa deve essere la medesima di quando si tratta di interpretare i testi del Vaticano II o altri insegnamenti della Chiesa. Papa Ratzinger ha voluto chiarire una volta per tutte che, per quanto riguarda  il Concilio, il criterio non può che essere quello della «riforma nella continuità», non quello della «rottura». La continuità di cui parla Benedetto XVI è il contesto storico della Tradizione, è l’insieme organico della dottrina della Chiesa contemporanea. Questo è l’unico criterio ermeneutico valido. Non è vero che ogni interpretazione sia ugualmente legittima, come sostiene il pensiero ermeneutico o “debole” e il relativismo in generale: non è legittima l’interpretazione relativistica, di chi parte da una “pre-comprensione” ideologica (laicistica, anticattolica, pragmatistica), mentre è legittima l’interpretazione teologica, che consiste appunto nel comprendere il detto e il non-detto del papa alla luce di tutto il suo magistero pontificio e alla luce di tutto il magistero della Chiesa contemporanea, il quale a sua volta rimanda al contesto più ampio dell’intera Tradizione cattolica.

Alla luce di questo criterio, se si legge il testo del documento nella sua interezza e tenendo conto delle circostanze (si tratta della risposta a delle domande poste da un giornalista ateo su un giornale politico),  non è possibile ipotizzare che papa Bergoglio abbia davvero inteso contraddire la dottrina della Chiesa su quello che ne è il tema principale, ossia la verità: anzitutto la verità naturale circa l’esistenza di Dio e il bisogno di salvezza dell’uomo (che costituiscono le premesse razionali della fede o “praeambula fidei”), poi la verità rivelata da Dio, che è Amore, per la  salvezza dell’uomo in Cristo Gesù. Già san Pio X aveva condannato, nell’enciclica Pascendi dominici gregis (1907) l’errore dottrinale dei modernisti cattolici, i quali sostenevano che «la verità non è immutabile, così come non lo è l’uomo stesso: la verità cambia incessantemente con l’uomo, nell’uomo e per mezzo dell’uomo».

Ora, questa concezione relativistica della verità, che i modernisti assumevano per demolire l’edificio dogmatico della Chiesa cattolica, è un errore filosofico prima ancora che teologico: è un non-senso logico, ossia una cosa che si può dire (per motivi retorici, per propaganda) ma non si può pensare, tant’è che la condanna da parte del Papa fu ben compresa e considerata ovvia dai cattolici contemporanei di san Pio X, sia semplici fedeli che intellettuali (tra questi ultimi, il grande filosofo e teologo domenicano Réginald Garrigou-Lagrange, autore del trattato intitolato Il senso comune, la filosofia dell’essere e le formule dogmatiche, la cui validità è dimostrata dal successo della nuova edizione italiana, da pochi mesi in libreria). Introducendo alla rilettura dell’enciclica Pascendi in una recente edizione presso l’editore Cantagalli di Siena, Roberto de Mattei osservava giustamente: «Il nucleo del modernismo, per san Pio X, non consiste tanto nell’opposizione all’una o all’altra delle verità rivelate, ma nel cambiamento radicale della nozione stessa di “verità”, mediante l’accettazione del principio di immanenza”».

Si capisce allora perché oggi La Repubblica, a più di un secolo di distanza dalla pubblicazione di quell’enciclica, abbia tanto interesse a far credere che papa Bergoglio abbia preso le difese dei modernisti, contro san Pio X, a proposito del tema della verità. A nulla serve, per chi vuole manipolare a ogni costo la parola di Bergoglio, il fatto che nella lettera a Scalfari papa Francesco neghi espressamente che la sua concezione della verità come relativa alla coscienza di ogni uomo e all’azione della grazia divina voglia dire che egli condivida l’opinione (che è appunto l’essenza del relativismo) secondo cui la verità è meramente “soggettiva”. In realtà la condanna del relativismo è stata confermata, dopo san Pio X, da tutti i Pontefici che gli sono succeduti, fino ad arrivare ai nostri giorni: Pio XI, Pio XII (questi con la celebre enciclica Humani generis, del 1950), il beato Giovanni XXIII (questi con la bolla di indizione del concilio ecumenico Vaticano II, Gaudet Mater Ecclesia, del 1961), Paolo VI (questi con l’enciclica Ecclesiam suam, del 1964, e con l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, del 1975), il beato Giovanni Paolo II (questi con le encicliche Veritatis splendor e Fides et ratio, rispettivamente del 1993 e del 1998), e infine Benedetto XVI, che ha fornito al suo successore, papa Francesco, la traccia per l’enciclica sulla fede, Lumen fidei, del 2013.

Anche i documenti del Vaticano II, malgrado il loro intento e la loro indole fondamentalmente pastorale, hanno formalmente confermato l’impossibilità di interpretare la Parola di Dio come qualcosa di relativo alle alterne vicende della soggettività umana, quale si manifesta nella sociologia della cultura (vedi soprattutto la costituzione dogmatica Dei Verbum). Solo alcuni presunti teologi, che hanno voluto riprendere e imporre, dopo gli anni Sessanta del Novecento, le tesi modernistiche, hanno cercato di convincere il Popolo di Dio che tutti questi pronunciamenti del Magistero sono storicamente “superati”, in quanto “pre-conciliari”, o segnano  un passo indietro (addirittura un “tradimento”) rispetto a quelli che essi ritengono essere gli orientamenti del Concilio.

Ma qui viene a proposito la necessità di diffondere nel Popolo di Dio la consapevolezza che il credente deve “prestar fede”, non a qualsiasi opinione (soprattutto se si presenta come contraria alla dottrina del Magistero), ma solo alla voce dei legittimi pastori, i quali insegnano «con autorità» (la exousia soprannaturale della quale ha scritto papa Francesco rivolgendosi a Eugenio Scalfari) quando impegnano, sia pure in gradi diversi, l’infallibilità della quale Cristo ha dettato la sua Chiesa (infallibilitas in docendo). Come ammonisce san Paolo, i fedeli cattolici non debbono comportarsi «come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l'inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell'errore» (Lettera gli Efesini, 4, 14).