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SANTI PIETRO E PAOLO

Collegialità, ma il primato di Pietro non si tocca

Nella solennità dei Santi Pietro e Paolo, Papa Francesco ha indicato le linee che intende seguire nella riforma della Chiesa. Citando la Lumen gentium ha affermato che il collegio dei vescovi esprime la varietà del Popolo di Dio, che deve essere ricondotta al vescovo di Roma.

Ecclesia 30_06_2013
Santi Pietro e Paolo

Il 29 giugno 2013 Papa Francesco ha celebrato la Messa nella solennità dei Santi Pietro e Paolo, imponendo il tradizionale pallio ai nuovi metropoliti. In apertura il Papa ha voluto salutare il coro della Thomaskirche di Lipsia con uno specifico riferimento a Johann Sebastian Bach (1685-1750), che in quella chiesa è sepolto: un saluto ecumenico a un coro luterano, certo, ma anche una risposta a coloro che - dopo la scelta di non presenziare al concerto della RAI - hanno scritto che il Pontefice disprezza la cultura musicale europea. In generale, tutta l'omelia - come al solito divisa didatticamente in tre parti - è sembrata guardare a interlocutori esterni e a problematiche di attualità, con un occhio sempre rivolto alla riforma della Curia romana e a decisioni imminenti che stanno per essere prese. Il Conclave ha chiesto al nuovo Pontefice d'immettere nella Chiesa più collegialità, più consultazione fra Curia romana e vescovi sparsi nel mondo. Francesco annuncia che si muoverà in questa direzione, ma purché non si metta in discussione il primato del Papa, senza il quale viene meno l'unità della Chiesa. 

Il Papa ha proposto tre pensieri sul ministero petrino, secondo tre diversi significati del verbo «confermare»: confermare nella fede, confermare nell'amore, confermare nella carità. Anzitutto, il Papa è chiamato a confermare nella fede. L'apostolo Pietro diventa il primo Papa quando confessa la verità sul Signore:  «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Solo dopo questa «confessione che non nasce da lui, ma dal Padre celeste», Gesù gli dice: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18). Il Signore ci insegna quindi con grande chiarezza che «il servizio ecclesiale di Pietro ha il suo fondamento nella confessione di fede in Gesù, il Figlio del Dio vivente, resa possibile da una grazia donata dall’alto». Il Papa è il Papa in quanto conferma i fedeli nella verità. 

E anche il Papa, ha detto Francesco, corre «il pericolo di pensare in modo mondano». Anche questa non è una novità, la troviamo nel Vangelo. Sono passati pochi minuti dall'istituzione del pontificato e già Pietro si mette ad argomentare appunto «in modo mondano», a suggerire a Gesù che forse la crocifissione non è proprio necessaria, attirandosi la nota durissima risposta del Signore: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo» (Mt 156,23). «Quando lasciamo prevalere i nostri pensieri, i nostri sentimenti, la logica del potere umano - commenta Francesco - e non ci lasciamo istruire e guidare dalla fede, da Dio, diventiamo pietra d’inciampo». Che questo valga anche per i Papi lo sappiamo da quel primo famosissimo dialogo fra Gesù e Pietro.

Secondo: il Papa è Papa perché conferma nell'amore. San Paolo al termine della sua vita può scrivere: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2 Tm 4,7). «Di quale battaglia si tratta?», si chiede Francesco. «Non quella delle armi umane, che purtroppo insanguina ancora il mondo; ma è la battaglia del martirio. San Paolo ha un’unica arma: il messaggio di Cristo e il dono di tutta la sua vita per Cristo e per gli altri. Ed è proprio l’esporsi in prima persona, il lasciarsi consumare per il Vangelo, il farsi tutto a tutti, senza risparmiarsi, che lo ha reso credibile e ha edificato la Chiesa». Se vuole essere credibile, anche il Papa, il Vescovo di Roma è chiamato a testimoniare il suo amore per la Chiesa in modo totale, senza temere le contraddizioni,  le persecuzioni e il martirio. E questo è anche il  compito di tutti i vescovi, simboleggiato dalla consegna del pallio. 

Terzo: il Papa è Papa perché conferma nell’unità. Lo stesso pallio è anche «simbolo di comunione con il Successore di Pietro». La Costituzione dogmatica «Lumen gentium» del Concilio Ecumenico Vaticano II, ha ricordato Francesco, definisce il Papa «principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione». Lo stesso testo conciliare afferma che il Signore «costituì gli Apostoli a modo di collegio o gruppo stabile, a capo del quale mise Pietro, scelto di mezzo a loro». Com'è noto, questo fu un problema centrale e difficile per il Vaticano II: armonizzare il primato del Papa, senza il quale non c'è unità, con la collegialità tra i vescovi, che è necessaria al governo di una Chiesa sempre più estesa e complessa e senza la quale, ha detto Francesco, l'unità rischia di trasformarsi in una sterile «uniformità». Dopo il Concilio i Papi hanno cercato di promuovere «il Sinodo dei Vescovi, in armonia con il primato. Dobbiamo andare per questa strada della sinodalità, crescere in armonia con il servizio del primato». 

Citando ancora la «Lumen gentium» Francesco ha affermato che il collegio dei vescovi, «in quanto composto da molti, esprime la varietà e universalità del Popolo di Dio». Ma questa varietà deve poi essere ricondotta a unità intorno al Vescovo di Roma. «Nella Chiesa la varietà, che è una grande ricchezza, si fonde sempre nell’armonia dell’unità, come un grande mosaico in cui tutte le tessere concorrono a formare l’unico grande disegno di Dio». «Unirsi nelle differenze» è la formula che coniuga collegialità e primato: ma questo, ha concluso il Papa, è possibile solo se i vescovi si affidano e confessano anzitutto la verità e alimentano questa professione di fede con una vita spirituale caratterizzata dal «consumarsi per amore di Cristo e del suo Vangelo» e da una vera devozione alla Madonna, Regina degli Apostoli.

Un'omelia, come si vede, fortemente teologica ma nello stesso tempo non priva d'impliciti riferimenti all'attualità. Il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, ha commentato che «nel gesto profetico della rinuncia di Benedetto XVI era implicito anche un grido: non si può lasciare sulle spalle di uno solo l’esercizio di un compito così gravoso. Nel pre-conclave abbiamo detto che, senza intaccare il primato, sarebbe stato provvidenziale che il nuovo Papa trovasse nuove forme per guidare la Chiesa». La riforma della Curia romana, il ruolo - che sembra sarà precisato in un imminente documento - della commissione di otto cardinali chiamata a consigliare il Papa su tale riforma, una nuova disciplina del Sinodo dei Vescovi: sono tutte mosse nella direzione,  che come ricorda il cardinale Scola fu auspicata da tutti al Conclave, di una nuova riflessione sulla collegialità «senza intaccare il primato».

Il giorno prima dell'omelia Papa Francesco aveva incontrato una delegazione del patriarcato ecumenico - ortodosso -  di Costantinopoli, presente anche alla Messa per la festa dei Santi Pietro e Paolo. Agli ortodossi Francesco aveva ricordato che è in corso una «riflessione della Chiesa cattolica sul senso della collegialità episcopale, e alla tradizione della sinodalità, così tipica delle Chiese ortodosse». Molti osservatori pensano che all'uso frequente - ancorché non esclusivo - dell'espressione «Vescovo di Roma» accanto a quella di Papa, tipico di Francesco, non sia estranea appunto la preoccupazione ecumenica di venire incontro alle Chiese ortodosse, in particolare quelle del Patriarcato detto «ecumenico» di Costantinopoli, che appaiono le più vicine in un cammino verso la piena unità. Naturalmente il cammino rimane delicato: sinodalità sì, ha detto il Papa, ma sempre «in armonia con il primato» del Vescovo di Roma.

Infine, in previsione del venticinquesimo anniversario, il 30 giugno 2013, delle ordinazioni senza l'autorizzazione di Roma di quattro vescovi da parte di monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991), il 27 giugno la Fraternità Sacerdotale San Pio X, appunto l'organizzazione fondata da mons. Lefebvre, ha pubblicato una dichiarazione ufficiale in cui ribadisce che non è disponibile ad accettare, come chiedeva Benedetto XVI, i documenti del Vaticano II interpretandoli secondo una «ermeneutica di riforma nella continuità» con il Magistero precedente, ma intende rifiutare questi documenti - o almeno buona parte di essi - in quanto rimane convinta che «la causa degli errori che stanno demolendo la Chiesa non risiede in una cattiva interpretazione dei testi conciliari, ma nei testi stessi». La dichiarazione cita la libertà religiosa, l'ecumenismo, il dialogo interreligioso, la liturgia, ma rifiuta anche esplicitamente la Costituzione dogmatica «Lumen gentium», affermando che la nozione di collegialità «distrugge l'autorità della Chiesa».

Non risulta che Papa Francesco si sia occupato per ora dello spinoso dossier che riguarda i cosiddetti «lefebvriani». Tuttavia in tema di libertà religiosa, ecumenismo, relazioni con gli ebrei e ora anche collegialità Francesco continua a ribadire - sulla scia di Benedetto XVI - che gli insegnamenti del Vaticano II non sono facoltativi, denunciando implicitamente posizioni che peraltro esistono anche al di fuori del mondo «lefebvriano» . È giusto e anzi doveroso approfondire l'interpretazione dei documenti conciliari, denunciando le false ermeneutiche che li presentano come rottura con il Magistero precedente.  Ma interpretare non può significare rifiutare, né accettare solo quanto nei testi del Vaticano II si limita a ribadire il Magistero precedente. Benedetto XVI parlava non di semplice «continuità» ma di «riforma nella continuità», e Francesco sta ora ribadendo uno per uno i momenti riformatori, nello stesso tempo interpretandoli «in continuità» sulla scia di Papa Ratzinger: dell'ecumenismo ai rapporti con il mondo ebraico e alla collegialità. Chi rifiuta i capisaldi del Vaticano II non può affermare di essere in armonia e in comunione con il Pontefice.