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COMUNISMO

Condannato l'editore di Hong Kong. I lunghi tentacoli di Pechino

Un tribunale cinese ha condannato Gui Minhai, cittadino svedese e residente a Hong Kong, a 10 anni di carcere. Non è una condanna fra le tante: si tratta di un caso di esportazione della repressione cinese all’estero ed è la prova che a Hong Kong hanno qualche ragione in più per protestare contro la legge sull’estradizione.

Esteri 26_02_2020
Protesta a Londra per il rapimento di Gui Minhai e dei suoi soci

La Cina fa parlare di sé praticamente solo per essere l’origine dell’epidemia di Covid-19. Ma la repressione dei diritti umani continua, anche se fa decisamente meno notizia. Un tribunale cinese ha condannato Gui Minhai, cittadino svedese e residente a Hong Kong, a 10 anni di carcere. Non è una condanna fra le tante: si tratta di un caso di esportazione della repressione cinese all’estero ed è la prova che a Hong Kong hanno qualche ragione in più per protestare contro la legge sull’estradizione.

L’accusa rivolta a Gui Minhai è di aver fornito informazioni segrete all’estero. Precedentemente era stato in carcere due anni per omissione di soccorso e concorso in omicidio stradale. Ma si potrebbe trattare benissimo di false accuse, come dimostra la sua incredibile vicenda personale. Gui Minhai, nato nella Cina continentale e studente a Pechino, si era recato in Svezia a completare gli studi alla fine degli anni Ottanta. A seguito del massacro di Piazza Tienanmen (4 giugno 1989), Gui ha ottenuto asilo politico dal governo di Stoccolma. Naturalizzato svedese nel 1992, Gui è tornato in Cina (ormai da straniero), poi si è trasferito in Germania nel 2004 dove ha iniziato a lavorare da editore di libri sulla storia politica cinese. Due anni dopo, ha aderito all’Independent Chinese Pen Centre, organizzazione non governativa di scrittori impegnati nella difesa dei diritti umani. E’ a questo punto che il regime di Pechino ha iniziato a inquadrarlo fra i suoi nemici. Già nel 2008, il nuovo editore non aveva ottenuto il permesso di entrare in Cina per andare a trovare i suoi parenti.

La carriera di Gui Minhai, come editore e difensore dei diritti umani si è svolta principalmente a Hong Kong, unico angolo libero di Cina (almeno finora). Nel 2012 ha fondato nella città-Stato la casa editrice Mighty Current Media, per pubblicare e distribuire letteratura del dissenso sul regime di Pechino, incluse biografie non autorizzate di membri di spicco del Partito Comunista. Nel 2014, Mighty Current aveva comprato la libreria Causeway Bay. Pareva andare tutto bene, ma né la cittadinanza di un Paese europeo, né la residenza di una città autonoma dalla Cina sono state sufficienti a proteggerlo dalla lunga mano di Pechino. Che lo ha raggiunto in uno Stato terzo: in Tailandia. Quando l’editore era in vacanza a Pattaya, è scomparso. L’ultima volta che è stato visto era in compagnia di uno sconosciuto che parlava al cellulare in cinese, mentre usciva dal suo appartamento in affitto. Era il 17 ottobre 2015. Per i tre mesi successivi di lui non si è saputo più nulla, finché non è “riapparso” alla televisione di Stato cinese. Ha confessato (si può solo immaginare dopo quali pressioni) di essersi consegnato volontariamente alle autorità cinesi, per costituirsi per un concorso in omicidio stradale nel 2003. Gli altri soci di Gui, rapiti assieme a lui in circostanze fino a quel momento misteriose, erano stati rilasciati, mentre l’editore è rimasto in carcere.

Dopo aver scontato due anni di carcere, Gui era stato liberato nell’ottobre del 2017, poi, nel gennaio 2018, era stato nuovamente arrestato. La seconda volta si stava recando a Pechino, per alcune visite mediche, assieme a due diplomatici svedesi, quando è stato prelevato dal treno da agenti in borghese. In un’intervista organizzata dal ministero della Pubblica sicurezza poco dopo il suo secondo arresto, l’editore aveva accusato la Svezia di aver strumentalizzato il suo caso, per provocare la Cina. Molto probabilmente anche queste dichiarazioni sono state estorte dai suoi carcerieri, assieme alla sua “scelta” di rinunciare alla cittadinanza svedese. Rinunciando, quindi, anche all’assistenza legale di Stoccolma. Ieri è arrivata la sentenza: 10 anni di carcere, per un’accusa di simil-spionaggio.

Nonostante la rinuncia di Gui alla cittadinanza svedese, Stoccolma non rinuncia a perorare la sua causa. Il ministro degli Esteri Ann Linde ha chiesto alla Cina di rilasciare Gui Minhai, in questi termini: “Siamo sempre stati chiari nel chiedere che Gui Minhai sia rilasciato, in modo che sua figlia e la sua famiglia possano essere ricongiunte. Questa richiesta rimane”.

Questa sentenza è un’ulteriore dimostrazione che Hong Kong rischia di perdere completamente la sua autonomia legale. Sempre che non l’abbia già persa. La stampa è libera in Hong Kong, ma pubblicare e vendere libri sgraditi al Partito Comunista comporta un arresto e una condanna, come se fossero stampati e venduti clandestinamente nella Cina continentale. Per ora il regime pechinese è dovuto ricorrere a metodi da anonima sequestri e a vari escamotage legali per raggiungere il suo scopo, facendo rapire il dissidente ed esule all’estero, in un Paese terzo, coinvolgendolo in reati penali di altra natura rispetto alla sedizione. Ma con la proposta di legge sull’estradizione, per ora solo ufficialmente accantonata dal governo autonomo di Hong Kong, il regime di Pechino potrebbe mettere le mani su chiunque voglia, per processarlo e condannarlo in Cina. Ecco perché non si fermano tanto facilmente le proteste contro la nuova legge, iniziate in giugno.