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IL DOCU-FILM

Così regalammo il Vietnam ai comunisti

il Vietnam è stata la penultima “cosa giusta” fatta dagli Usa in campo internazionale. Ma era l’America di Nixon, Reagan, John Wayne e di Walt Disney, non quella del marxismo starred ‘n’ stripped ormai dominante. Un documentario Last days in Vietnam («Ultimi giorni in Vietnam») ci ricorda quella tragedia. 

Cinema e tv 23_02_2016
La locandina del docu-film Last days in Vietnam

Circola in rete un documentario in inglese, Last days in Vietnam, il cui sottotitolo rivela il plot: How many could be saved? Traduco per chi si ostina a ignorare la “lingua corrente” ormai obbligatoria: «Ultimi giorni in Vietnam. In quanti avrebbero potuto salvarsi?». Sfilano interviste a chi c’era e filmati d’epoca. Il tono è addolorato e dispiaciuto. 

Molti erano gli americani che a Saigon avevano lasciato il cuore. Molti avevano sposato una vietnamita, donne minute e delicate, bamboline di porcellana dall’incarnato scuretto e dal modo di fare molto lontano da quello a cui gli yankees erano abituati a casa loro. In tanti avevano figli meticci e tantissimi un’innamorata ricambiata. Per anni funzionari e soldati americani avevano lavorato in quel lembo di Indocina che i francesi avevano occidentalizzato e cristianizzato prima di dover sloggiare. I loro “collaborazionisti” locali erano legione, se non tutti. Sapevano che fine avrebbero fatto se i comunisti del Nord fossero riusciti a metter loro le mani addosso. 

Nelle interviste del documentario qualche reduce non riesce a trattenere le lacrime. Già, perché il Vietnam è stata la penultima “cosa giusta” fatta dagli Usa in campo internazionale (l’ultima l’ha fatta Reagan), ma ci sono voluti decenni e un successo filmico (ma di puro passaparola) come Rambo perché la rabbia dell’America profonda sbottasse. Chi ha una certa età ricorda l’infinita guerra che gli Usa dovettero combattere con una mano legata dietro la schiena, mentre tutto lo studentame, tutti i cantanti e gli attori, tutto l’intellettualume d’Occidente manifestava, marciava, inveiva e remava contro. 

Il documentario mostra l’ambasciatore americano a Saigon, Graham Martin, negare fino all’ultimo l’evidenza. In perfetta buona fede, perché suo figlio in quella guerra ci era caduto. Ma tutti i suoi funzionari sapevano come stavano realmente le cose, tanto che, sottobanco, cominciarono a organizzare un piano di evacuazione per tutti i sudvietnamiti che il loro Paese aveva giurato di proteggere. Nixon, praticamente costretto a firmare gli accordi di Parigi, dichiarò furibondo che se la controparte non li avesse rispettati gli americani avrebbero ripreso le armi. Ma, con un tempismo fatale, mentre la controparte li infrangeva Nixon cadeva sotto i colpi del Watergate. Un misero sgambetto elettorale di bassa politica interna, che i maestri della propaganda riuscirono a ingigantire fino a provocare le dimissioni dell’odiato “berluscone” di casa loro. 

Così, il Vietnam venne abbandonato a se stesso. I più anziani ricordano le immagini degli elicotteri che, stracarichi di gente in fuga, si inabissavano in mare perché i generosi piloti americani non avevano avuto cuore di respingere vecchi e bambini. Ricordano anche i “boat people”, le stracolme carrette del mare che affrontavano il Pacifico (non certo la distanza tra la Libia e Lampedusa) pur di sottrarsi a una vita nel “paradiso” comunista. Anche la nostra marina si mosse (malgrado l’opposizione dei liberals nostrani) per soccorrerli. 

Nel documentario una scena prende la gola: le navi da guerra fornite dagli americani agli alleati sudvietnamiti e colme di profughi non possono attraccare nelle Filippine perché il governo di Manila si è affrettato a riconoscere, alla velocità della luce, il Vietnam “unificato”; per sbarcare si ricorre all’escamotage del cambio di bandiera; quella di Saigon viene ammainata -tra la commozione degli stessi americani che in cinquantamila per essa si erano fatti ammazzare- e sostituita con quella a stelle e strisce. Intanto Gerald Ford, pur imprecando, dà l’ordine del si-salvi-chi-può. Il segnale, trasmesso via radio, è la canzone White Christmas di Bing Crosby. Buon Natale. Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. 

Intanto, i liberal americani celebrano il loro trionfo. Il giornalista Bob Woodward, co-autore (con Carl Bernstein) dello scoop anti-Nixon, ottiene il sospirato Pulitzer. Robert Redford, il più a sinistra degli attori hollywoodiani, si affretta a impersonarlo nel film Tutti gli uomini del presidente e, ovviamente, vince premi a iosa (quattro Oscar). Ronald Reagan, l’ultimo presidente del “sogno americano”, ebbe a dire: «Potevamo asfaltare il Vietnam e dipingerci le strisce di parcheggio sopra». Ma la sua era ancora l’America di John Wayne e di Walt Disney, non quella del marxismo starred ‘n’ stripped ormai dominante.