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Crisi della stampa, le responsabilità dei direttori

Il tormentone dell'estate è la crisi della stampa, con la partenza di De Bortoli dal Corriere della Sera, annunciata con ampio anticipo e causata dalla sua lite con gli azionisti di Rcs. Si impone una riflessione sulle responsabilità dei direttori nel crollo delle vendite. Ma soprattutto sul modo con cui vengono selezionati.

Economia 07_08_2014
Ferruccio De Bortoli

Tra i tormentoni di quest’estate, oltre all’ossessione per la riforma del Senato, ci sono anche i rumors sui cambi di direzione di alcuni importanti quotidiani. Il mondo dei media è in agonia, e non da oggi. La moria di testate cartacee prosegue a ritmi preoccupanti; l’ultima crisi, in ordine di tempo, ha riguardato un quotidiano storico come L’Unità, che ha cessato le pubblicazioni il 31 luglio. C’è anche chi cerca di sopravvivere attraverso fusioni/acquisizioni (La Stampa - Il Secolo XIX) o accorpamenti di redazioni (Quotidiano del Sud), ma si tratta di palliativi che, in mancanza di una strategia industriale, appaiono destinati all’insuccesso.

La partita più grossa, però, riguarda la successione di De Bortoli, alla guida del Corriere della Sera. Il direttore del più importante quotidiano italiano ha annunciato alcuni giorni fa che lascerà la poltrona il 30 aprile 2015 e c’è da chiedersi perché la notizia, per quanto nell’aria, sia stata ufficializzata con così largo anticipo. Negli ultimi mesi De Bortoli è stato seduto su una polveriera, con soci azionisti in guerra tra loro e una redazione in subbuglio per la cessione della sede storica e per alcune scelte assai discutibili sul piano della governance e dell’integrazione carta-online. I dissapori tra De Bortoli e John Elkann e, soprattutto, tra De Bortoli e l’amministratore delegato Scott Jovane non erano più un mistero per nessuno. L’aria in via Solferino era diventata irrespirabile. Ora il comunicato ufficiale del divorzio dovrebbe contribuire a rasserenare gli animi, ma solo in parte, considerata la polemica, già scatenata da alcune componenti del sindacato dei giornalisti, sulla buonuscita garantita al direttore (2,5 milioni di euro) mentre si continuano a chiedere sacrifici a giornalisti e collaboratori, e sulla legittimazione che potrà avere un direttore ormai esautorato e privo di effettivo controllo sulla linea editoriale del giornale.

Chi prenderà il suo posto? Il “toto-nomi” già impazza. In pole position il pupillo di casa Fiat, Mario Calabresi, inviso però a una parte di azionisti, che gli preferirebbero un interno (Aldo Cazzullo?). La partita è apertissima e non sono da escludersi sorprese. La questione, però, riguarda i criteri di nomina. Anche questa volta verrà scelto un direttore sulla base di criteri di fedeltà e non di competenza professionale. Nulla da eccepire su De Bortoli, ci mancherebbe. C’è però da chiedersi perché in oltre vent’anni il principale quotidiano abbia avuto soltanto due direttori (Mieli e De Bortoli), che si sono rimpallati senza rivali la prima poltrona di via Solferino, se si eccettua la breve e impalpabile parentesi di Stefano Folli. Se i giornali vanno male e si vendono sempre meno, la colpa non sarà anche un po’ dei direttori? Perché continuare a scegliere sempre gli stessi, a pagarli profumatamente e ad accettare che trascorrano più tempo nei salotti televisivi anziché nella redazione per il materiale confezionamento dei loro prodotti editoriali? E poi, se i direttori rispondono quasi sempre ai loro editori più che ai lettori, se anziché sollecitati dal rispetto dei principi deontologici che si sono impegnati a rispettare per diventare giornalisti si adeguano supinamente agli interessi extraeditoriali imposti dagli assetti proprietari delle loro testate, come si può sperare di avere giornali liberi con notizie trasparenti e obiettive?

La riflessione sulla libertà d’informazione passa anche attraverso la risoluzione di questo nodo: garantire che la nomina dei direttori risponda a criteri meritocratici. Il principio sacrosanto della libertà d’impresa (ogni imprenditore assume i dirigenti che vuole) va in questo caso bilanciato con il carattere pubblico e universale del bene dell’informazione, prodotto dell’attività dell’azienda editoriale. Se ci sono direttori troppo docili al volere dei loro editori, imprigionati in logiche di cordate, di patti di sindacato, di condizionamenti subdoli e distanti dal diritto dei cittadini ad essere informati, ne risente l’intera filiera produttiva delle notizie. Su questo punto non abbiamo mai sentito un grido d’allarme da parte della Federazione nazionale della stampa italiana. Insomma, niente di nuovo sotto il sole. Nulla di personale contro gli attuali direttori, beninteso. Restiamo convinti che, anche per una loro maggiore libertà e credibilità all’esterno, dovrebbero essere designati con meccanismi diversi. In un nuovo statuto delle imprese editoriali, del quale si sente sempre più la necessità, questa potrebbe essere una clausola da inserire.