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SEMESTRE

Crisi economica, l'Ue è solo un alibi

Inizia il semestre italiano alla guida dell'Ue. Con il nuovo europarlamento e la Commissione in formazione, il momento è delicato. Renzi bacchetta Bruxelles. Ma i nostri problemi non sono originati dall'Europa. Sono tutti nostri.

Editoriali 25_06_2014
Ue

Siamo arrivati al tanto atteso e decantato semestre italiano di presidenza europea. Un impegno certamente importante soprattutto perché si colloca in uno dei momenti più difficile sulla strada della costruzione di una sempre maggiore unità politica del Vecchio continente. Un impegno tuttavia più formale che sostanziale dato che le maggiori responsabilità saranno quelle di convocare e guidare i vertici dei Consigli dei ministri in cui le decisioni più importanti dovranno essere comunque ancora prese all’unanimità. E peraltro anche da un punto di vista istituzionale l’Europa si troverà nei prossimi mesi in un periodo di “riflessione” impegnata come sarà dall’avvio dei lavori del nuovo Parlamento e soprattutto dal rinnovo dell’intera Commissione dato che il mandato di quella attuale scade il 31 ottobre.  C’è da notare che la nuova Commissione dovrà essere composta da un numero di membri, compreso il Presidente e l'Alto Rappresentante dell'Unione per Affari esteri, corrispondente ai due terzi del numero dei Paesi membri, a meno che il Consiglio europeo non decida di modificare il numero dei commissari. Questo vuol dire che non tutti i Paesi potranno essere rappresentati e che dovrà (o dovrebbe) prevalere la logica dell’autorevolezza personale rispetto a quella della difesa degli interessi nazionali.

L’Italia si presenta a questi appuntamenti con grandi ambizioni. Lo ha detto il premier Renzi nelle sue ultime dichiarazioni al Parlamento ribadendo la volontà di impostare un piano di riforme in grado di dare impulso alla crescita e all’occupazione, riforme da realizzare nell’arco di mille giorni per dare una svolta ad un politica europea che viene espressamente criticata per il rigore e l’incapacità di assumere decisioni costruttive.

Ma di fronte a queste critiche vi sono due tipi di problemi. Il primo è che tra le cause della crisi economica che ha colpito l’Italia più duramente di altri paesi, il rigore dei conti non è il tema più rilevante. Le cause della crisi italiana vanno infatti ricercate innanzitutto nella stagnazione demografica, che ha fatto crollare la domanda interna, nella lentezza delle riforme, che ha provocato una progressiva perdita di competitività per l’industria italiana, negli oneri impropri burocratici e amministrativi, che insieme all’alto carico fiscale frenano e penalizzano le attività produttive. Negli ultimi vent’anni molte componenti della realtà italiana hanno fatto finta di non accorgersi dei grandi cambiamenti dello scenario economico. Basta guardare al molte parti del sindacato, ferme nella difesa dei diritti formali e ostinate nella prosecuzione di una conflittualità che non difende né gli interessi particolari, né tanto meno quelli della collettività.

Il secondo problema è che si pretende di affrontare situazione del tutto nuove, come la rivoluzione tecnologica, con metodi sostanzialmente vecchi. Con le logiche attuali le disuguaglianze non potranno che aumentare e l’economia non potrà che proseguire nel suo circolo vizioso fatto di calo dell’occupazione, calo dei redditi, calo dei consumi. Ci sarebbe bisogno di fantasia e flessibilità. In moltissime aziende le logiche del taglio dei costi, delle riduzioni di personale, della chiusura di stabilimenti e reparti, hanno avuto il sopravvento sulla ricerca di soluzioni capaci di salvaguardare occupazione e capacità di crescita delle imprese: e la cassa integrazione è diventata il troppo comodo rifugio di fronte alle esigenze di ristrutturazione.

Certo non ci sono soluzioni facili. Ma qualcosa potrebbe insegnare il modello tedesco: cogestione nelle imprese, governo di vera unità tra i grandi partiti, efficienza dell’amministrazione. Eppure anche la Germania ha l’euro ed è in Europa.

In Italia le colpe sono sempre di qualcun altro: con i sindacati che accusano le imprese, le imprese che accusano il Governo, il Governo che invece di amministrare (in fondo rappresenta il potere esecutivo) si sostituisce al Parlamento nel fare le leggi e si lamenta della burocrazia, e tutti quanti che accusano l’Europa e le sue regole.

Forse il primo passo sarebbe quello di fare ognuno il proprio dovere. Ma è così comodo lamentarsi, magari affollando i salotti televisivi, peraltro noiosi e inconcludenti come le partite della nazionale ai mondiali.