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PANAMA PAPERS

Ecco chi bussa alle porte del paradiso (fiscale)

L’ultimo caso riguarda Panama e c’è già chi lo ha battezzato lo scandalo del secolo. Si tratta della pubblicazione di parte degli 11 milioni di documenti sottratti allo studio legale panamense Mossack Fonseca, una società che da quarant’anni svolge la sua attività di fiduciaria in un Paese che è ancora considerato un paradiso fiscale.

Editoriali 05_04_2016
Panama City

L’ultimo caso riguarda Panama e c’è già chi lo ha battezzato lo scandalo del secolo. Ma non è il primo, né sarà sicuramente l’ultimo. Si tratta della pubblicazione di parte degli 11 milioni di documenti sottratti allo studio legale panamense Mossack Fonseca, una società che da quarant’anni svolge la sua attività di fiduciaria in un Paese che è ancora considerato un paradiso fiscale, soprattutto grazie alla sopravvivenza (ormai come si vede peraltro più formale che sostanziale) del segreto bancario.  

Secondo le rivelazione dell’Ici (un consorzio internazionale di giornalisti investigativi cui fanno parte reporter di giornali come The Guardian, Le Monde, Süddeutsche Zeitung e per l’Italia L’Espresso), una colossale quantità di denaro sarebbe stata nascosta sia per sfuggire al Fisco, sia per occultare il frutto di reati, sia per nascondere i redditi provenienti da corruzione o da affari criminali. Sarebbero implicati di dodici capi di Stato e di governo (sei dei quali ancora in attività, tra cui il premier russo Putin), numerosi responsabili politici e funzionari di primo piano, almeno 29 miliardari presenti nella classifica Forbes dei 500 più ricchi del Pianeta, accanto a molte persone e società nella lista nera del governo americano perché in affari con i cartelli messicani della droga, organizzazioni terroristiche come Hezbollah o “Stati canaglia” come la Corea del Nord.

Al di là dei dati concreti, che dovranno essere dimostrati nelle sedi competenti, queste rivelazioni possono portare numerosi spunti di riflessione. Certo ci può, e ci deve essere, una forte indignazione per il fatto che soldi pubblici o proventi da reati siano stati sottratti al bene collettivo. Ma insieme non si può non rilevare come l’attuale era informatica non offra più alcuna certezza, nemmeno ai più potenti, sul fronte della protezione dei dati personali e della privacy. Allo stesso modo, tuttavia, si deve sottolineare come il cerchio attorno ai paradisi fiscali e alle isole di privilegio finanziario si sta sempre più chiudendo. I protocolli sulla trasparenza varati dall’Ocse, le forti azioni del governo americano per punire gli istituti finanziari che aiutavano gli evasori, le regole dell’Unione europea, sono stati tutti passi che hanno portato ad accordi bilaterali e collettivi sullo scambio di informazioni coinvolgendo anche paesi tradizionalmente chiusi come la Svizzera.

Anche l’Italia ha fatto un passo avanti nella direzione della trasparenza. Dal primo aprile le autorità fiscali potranno accedere a tutti i conti bancari dei cittadini, una possibilità che prima richiedeva almeno il consenso dell’autorità giudiziaria. La lotta all’evasione è ovviamente la motivazione di fondo ed è una motivazione più che giustificata. Ma il rischio è che nella complessità della normativa fiscale il cittadino diventi la parte debole chiamata magari a giustificarsi per aver avuto un regalo dallo zio d’America. E lo stesso vale per i conti panamensi. Certo ci sono i nomi di corrotti e criminali: ed è giusto che siano tenuti a pagare il conto alla giustizia. Ma una società italiana è la capofila di un consorzio che sta realizzando il raddoppio del canale di Panama: da qualche parte i compensi dovranno pur passare. Alla luce del sole, ma comunque attraverso qualche banca o società fiduciaria.

Non è giusto quindi fare di ogni erba un fascio. Le holding lussemburghesi sono una normalità nel controllo delle grandi imprese italiane, non tanto per motivi fiscali (dato che sono comunque dichiarate con tutti i loro utili) quanto per la lacunosità della normativa del nostro Paese in questa materia. Forse vicende come quest’ultima panamense dovrebbero, oltre che provocare sdegno e indignazione, far muovere qualche passo anche per rendere le leggi, soprattutto quelle fiscali più favorevoli all’attività economica.  Non ci può essere comunque giustificazione per chi cerca di sfuggire ai propri doveri rifugiandosi nei paradisi fiscali: nemmeno quella di voler scappare da un inferno fiscale.