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MEDIO ORIENTE

Fra dispetti e rappresaglie, muore il processo di pace

Il 30 dicembre 2014, l'Autorità Nazionale Palestinese non è riuscita ad ottenere dall'Onu tempi certi per la sua indipendenza. E il processo di pace con Israele ha fatto un importante passo indietro. Dall'inizio dell'anno, sia le dichiarazioni di Abbas e di Netanyahu, sia le loro azioni e reazioni, fanno temere il peggio.

Esteri 16_01_2015
Bandiere

Sembra proprio che non reggano più le palafitte erette in vent’anni di sforzi diplomatici per sostenere l’inestricabile contenzioso israelo-palestinese maturato nelle tre guerre di metà Novecento, del 1948, 1967 e 1973, vinte dai combattenti ebrei. La speranza di un compromesso di pace, sbocciata negli accordi di Oslo del 1993 e poi, per vent’anni, insistentemente e delicatamente coltivata dalla comunità internazionale, negli ultimi mesi ha, per volontà dei palestinesi, abbandonato le coordinate sulle quali era stata istradata e intrapreso un cammino che è dir poco irto di incertezze e rischi, ma certamente gravido di polemiche e di irragionevoli tensioni.

La svolta, all’indietro, è avvenuta il 30 dicembre al Consiglio di Sicurezza dell’Onu dove si è infranta la forzatura dell’Autorità Nazionale Palestinese di ottenere, dalla massima istanza mondiale, quel che il negoziato diretto con Israele non è stato in grado di conseguire: tempi certi, entro il 2016, per la fine dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e la contemporanea nascita del proprio Stato configurato, meglio preteso, entro confini inesistenti – tali essendo le linee di armistizio del 1967 – e con capitale la città di Gerusalemme, perduta, con tutta quella regione (allora amministrata dalla Giordania), nella guerra che in soli sei giorni segnò la più cocente sconfitta degli eserciti dei paesi arabi vicini.

Una delusione bruciante in assenza di “veti” perché soltanto per la mancanza di un voto (otto e non nove sono stati quelli espressi a favore, due i contrari e cinque le astensioni) è fallita l’approvazione della Risoluzione presentata al Consiglio dalla Giordania, che ha così dovuto condividere la sconfitta politica insieme ai paesi della Lega Araba che l’avevano fortemente sostenuta. Sconfitta subito rinfacciata dai fondamentalisti islamici di Hamas, al potere a Gaza, per i quali non v’è altra strada che cacciare con la forza gli israeliani dalla “terra araba” occupata; che è poi quella di Giudea e di Samaria che gli ebrei considerano propria “per sempre”, come ricordano nelle preghiere di ogni giorno, tanto attuali quanto sono gravide di secoli.

A far abbandonare all’Autorità Palestinese la strada del dialogo con lo Stato ebraico – affossatosi negli anni da preclusioni, estenuanti irrigidimenti, esigenze incomprese, contraddizioni, degenerazioni conflittuali, fino all’ultima guerra di Gaza e alla ri-esplosione del terrorismo – sembra sia stato il momento internazionale, segnato paradossalmente dai conflitti che stanno dilaniando la regione e per i quali è generalmente prevista una lunga durata. Questa conflittualità, e i successi militari conseguiti dal Califfato islamico, hanno rafforzato da un lato l’irrigidimento d’Israele nell’esigere maggiori tutele per la sua sicurezza, e dall’altro ridotto ancor più gli spazi di indipendenza sui quali i palestinesi vogliono stabilire il loro Stato. E d’altra parte si è ristretta, sino a prefigurarsi sterile, la capacità di mediazione del Quartetto internazionale per il Medio Oriente.

Da qui la svolta strategica del presidente palestinese Mahmoud Abbas di dare battaglia sul campo della credibilità e del sostegno internazionale di Israele, di indebolirne l’immagine, di logorarla e di screditarla; e di converso di accrescere, migliorare e consolidare la propria, con l’obiettivo immediato di conseguire qualche successo pratico da presentare ad una opinione pubblica amareggiata e senza speranze, sulla quale i fondamentalisti musulmani di Hamas, al potere a Gaza, e quelli della Jihad islamica stanno riversando critiche e discredito, deleteri per il partito Al Fatah di cui Abbas è leader. E’ opinione diffusa che mai questa svolta sarebbe stata da lui intrapresa senza l’assicurazione della copertura finanziaria, da parte di alcuni paesi arabi mischiati in questi conflitti, del vuoto determinato dal prevedibile allentamento, se non dall’interruzione, del sostegno degli Stati Uniti, solidali con Israele.

Non per nulla la ritorsione di Israele al propagandato accesso dell’Autorità palestinese alla Corte Internazionale Penale dell’Aja – chiesto all’istituzione dell’ Onu con il dichiarato proposito di ottenere la “condanna dei crimini di guerra e contro l’umanità” commessi dai militari israeliani contro i palestinesi di Gaza – è avvenuta in campo finanziario: il governo di Benjamin Netanyahu ha infatti congelato il trasferimento di circa cento milioni di euro per dazi e imposte esatti per suo conto. Ed è montata senza freni la polemica verbale. Eccone un campionario: “I palestinesi scherzano con il fuoco, rischiano loro, alleati di Hamas, nota organizzazione terroristica, di essere perseguiti da Israele per gli attentati e i lanci di razzi”. “Il blocco dei nostri soldi è di fatto una rapina, un crimine”. “Siamo l’isola solitaria su cui si infrangono le onde dell’estremismo islamico che stanno bagnando l’intero Medio Oriente”. “Grazie all’Iran per il suo contributo alla resistenza armata dei palestinesi all’occupazione sionista”.

Ma siamo appena all’inizio dei dispetti e delle rappresaglie. Mahmoud Abbas spinge nell’acceleratore dell’offensiva diplomatica imponendosi persino come inatteso ospite alla marcia di domenica scorsa per le vie di Parigi contro i fanatici estremisti musulmani, vendicatori dei giornalisti del settimanale Charlie Hebdo, nel vano tentativo di offuscare la doverosa preminente presenza di Benjamin Netanyahu. Che venuto a rendere omaggio alle quattro vittime della furia antisemita nel supermercato kosher e portandosi a Gerusalemme le loro salme per la più degna sepoltura, non ha potuto non richiamare tutti gli ebrei di Francia in Israele, la loro “patria eterna”. Entrambi nella prima fila dei capi di stato e di governo non si sono scambiati uno sguardo, si sono semplicemente ignorati.