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CINA

Hong Kong commissariata. E guai a chi protesta (in Italia)

Ad Hong Kong arriva il commissariamento. Pechino istituisce il nuovo Ufficio per la Salvaguardia della Sicurezza Nazionale. Il suo capo, Zheng Yanxiong, è un falco del PCC. Fioccano gli arresti dei manifestanti, di cui 10 sotto la nuova legge. E anche in Italia, l'ambasciata protesta duramente contro la manifestazione di sostegno a Hong Kong organizzata da Salvini. 

Esteri 04_07_2020
Hong Kong, arresti durante la manifestazione del 1 luglio

Una volta approvata la nuova Legge per la sicurezza nazionale ad Hong Kong arriva il commissariamento. La Cina non ha perso tempo per assorbire e porre sotto controllo la città, finora autonoma, con l’istituzione di un nuovo organismo diretto da un funzionario veterano e zelante del Partito Comunista. Il passaggio dal vecchio al nuovo ordine potrebbe cambiare il volto occidentale e libero della città ex britannica in men che non si dica. E anche all’estero, persino nella lontana Italia, protestare contro questo corso degli eventi può costare una dura reprimenda cinese. A farne le spese per primo è Matteo Salvini.

Il regime di Pechino ha istituito a Hong Kong il nuovo Ufficio per la Salvaguardia della Sicurezza Nazionale. Avrà un personale tutto suo, scelto e controllato dal governo centrale, che applicherà la nuova norma al di là del volere delle istituzioni locali. È la dimostrazione più lampante vecchio principio “un Paese due sistemi” non esiste più. Che la “Regione autonoma speciale” è stata ormai commissariata. Il commissario, che presiederà il nuovo Ufficio, si chiama Zheng Yanxiong, 56, di cui 30 passati a servire il Partito Comunista Cinese, propagandista di professione, con un passato purtroppo noto alla popolazione di Hong Kong. Nativo della provincia confinante del Guangdong, nel Sudest della Cina, Zheng era balzato agli onori della cronaca nel 2011, quando era diventato il volto della repressione della rivolta di Wukan. La cittadina di pescatori, che si era ribellata a una requisizione di terreni, era stata prima ammansita dalle autorità locali, che avevano permesso una consultazione democratica per il rinnovo delle cariche. Poi era arrivato il funzionario Zheng, a ripristinare l’ordine. In una conferenza stampa aveva accusato gli abitanti del villaggio ribelle di aver attratto l’attenzione dei media stranieri. “Pensare che i media stranieri siano credibili – aveva detto loro – è come credere che le scrofe possano arrampicarsi sugli alberi”.

Vista la sua considerazione sulla stampa internazionale, i media di Hong Kong e tutte le testate straniere che finora vi hanno operato liberamente, potrebbero avere vita molto dura, d’ora in avanti. Soprattutto considerando che il nuovo commissario Zheng ha fra i suoi incarichi proprio il controllo della stampa, con piena facoltà di censurare qualsiasi notizia possa rientrare nelle tipologie punite dalla nuova legge. Zheng “è uno specialista nell’ideologia e un falco – dichiarava ieri al Wall Street Journal il professor Wu Qiang, ex docente all’università Tsinghua di Pechino – Possiamo ben attenderci che imponga uno stretto controllo sulla stampa e sulla libertà di espressione a Hong Kong”.

Nel frattempo, anche lo stesso governo di Hong Kong sta implementando la nuova legge. La manifestazione del 1 luglio, anniversario della riconsegna di Hong Kong alla Cina, è stata celebrata per la prima volta (dal 2003) in modo clandestino, senza l’autorizzazione delle autorità. Dietro il pretesto del distanziamento sociale erano stati vietati tutti gli assembramenti con più di 50 persone. La manifestazione è stata dunque repressa dalla polizia. Un poliziotto è stato ferito a un braccio, i manifestanti sono stati dispersi con gli idranti. Il bilancio è stato di quasi 400 arresti, di cui 360 fermati per manifestazione illegale e 10 arrestati sulla base della nuova Legge per la sicurezza nazionale. Uno di questi dieci, uno studente ventenne in motocicletta, è stato fermato perché portava la “bandiera dell’indipendenza” e quindi verrà incriminato per secessionismo, rischiando dai 3 anni all’ergastolo. Martedì, il governo di Hong Kong ha anche dichiarato illegale lo slogan “Hong Kong libera! La rivoluzione dei nostri tempi!”, molto diffuso fra i manifestanti, perché “connota impulsi secessionisti e sovversivi”.

Secondo la nuova Legge per la sicurezza nazionale, potrebbe essere arrestato anche il cardinal Joseph Zen, 88 anni, vescovo emerito di Hong Kong, da sempre critico del regime comunista cinese e sostenitore del movimento filo-democratico dell’enclave ex britannica. La sua voce libera si è sentita ancora, in questi giorni, in un video su Facebook in cui dice: “Se le parole giuste e appropriate sono da considerarsi contro la loro legge, io sopporterò la denuncia, il processo e l’arresto. Numerosi precessori hanno subito cose simili”. Secondo International Christian Concern (Organizzazione non governativa cristiana di Washington che monitora le persecuzioni), con la legge appena introdotta dalla Cina: “Membri del clero di Hong Kong che sono stati sostenitori del movimento pro-democrazia, come il cardinal Joseph Zen e il vescovo ausiliare Joseph Ha, potrebbero essere estradati nella Cina popolare per essere processati, dal momento che Pechino li considera come minacce al regime”.

La censura di Pechino si allunga fino in Italia. A farne le spese, appunto, è stato il leader della Lega, Matteo Salvini, che il 2 luglio aveva (legalmente e liberamente, a Roma) organizzato una manifestazione in difesa dei diritti di Hong Kong di fronte all’ambasciata cinese. L’ambasciatore cinese ha espresso, in un comunicato stampa, “il nostro forte scontento e disappunto”. Ma non si limita a questo: il diplomatico di Pechino paragona la legge di Hong Kong ai decreti sicurezza del Governo Conte, pur non nominandoli, sapendo che era stato proprio Salvini a promuoverli. “Tali politici, che avevano denunciato gli atti di violenza e criminalità che hanno avuto luogo sul territorio italiano e avanzato proposte volte a rafforzare le misure legislative in materia di ordine pubblico, di fronte alle deliberate violazioni della legge da parte dei violenti di Hong Kong, che sfociano persino in crimini di separatismo, fingono invece di non vedere e non sentire”. E in questo modo si sottolinea anche l’assoluta intransigenza di Pechino nei confronti di ogni protesta. In barba al principio di autonomia garantita, finora, a Hong Kong da un trattato internazionale ratificato dalla Cina, la nota dell’ambasciata si chiude con un lapidario ragionamento: “Gli affari di Hong Kong sono politica interna cinese”. Punto.

Salvini ribatte: "Non mi mette paura qualche diplomatico", come ha dichiarato a Radio Radicale. "Ricordiamo che in Italia le leggi sono approvate da un Parlamento democraticamente eletto e non ratificate dall'Assemblea nazionale del popolo piegata al Partito comunista. Più grave e vergognoso del comunicato del portavoce dell'Ambasciata cinese in Italia c'è solo il silenzio del nostro governo sui fatti di Hong Kong". Un silenzio che suona sinistramente come una complicità, soprattutto se si considerano le parole pronunciate, alla trasmissione Agorà, da Manlio Di Stefano (M5S), sottosegretario agli Esteri: "Certamente la Cina su Hong Kong sta sbagliando soprattutto i modi perché poi là sappiamo bisogna andare indietro di parecchi decenni per capire l’origine del problema. Dal nostro molto meno. Perché c’è un principio di autodeterminazione che va tutelato". Frasi volutamente ambigue che sono state lette, dall'opposizione, come un'implicita approvazione dell'operato cinese.