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ECONOMIA

I cinque fattori che fermano la crescita

Il problema della mancanza di crescita
è strutturale e non congiunturale. Cambiare è difficile ma è sbagliato pensare che non ci siano soluzioni.

Attualità 02_03_2011
economia grafico La crescita è il problema numero uno dell’economia italiana. Lo ha ricordato nei giorni scorsi a Verona il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, sottolineando come da quindici anni il Paese è praticamente fermo, incapace di cogliere gli stimoli positivi dell’economia mondiale quando questi si presentano.

Vi sono tutte le condizioni per ritenere che il problema sia ormai di natura strutturale e non semplicemente congiunturale, derivi cioè dalle condizioni di fondo della società e non tanto dagli andamenti ciclici dei consumi e delle condizioni operative delle imprese.
E allora, proprio per giudicare le eventuali terapie che possano sconfiggere la stagnazione, è forse importante ricordare i fattori che hanno caratterizzato da un profilo strutturale questi ultimi quindici anni.

Al primo posto va collocato l’andamento demografico. E’ questo il primo indicatore di un’Italia che non cresce più. Con l’indice di fecondità più basso d’Europa, l’aumento della popolazione è avvenuto solo grazie agli immigrati a cui si deve anche il leggero aumento della natalità negli ultimi anni. Ma le famiglie italiane fanno meno figli, ci si sposa più tardi e ad età più avanzata si ha il primo, e spesso unico, figlio.

Un secondo fattore strutturale è dato dal divario tra Nord e Sud, un divario che è andato aumentando nel corso degli anni con un Nord che ha saputo mantenere il passo con i livelli di reddito delle regioni europee più avanzate e un Sud che ha mantenuto i suoi pilastri nell’impiego pubblico e nell’assistenzialismo sociale.

Un terzo elemento di crisi è dato dalla mancanza di una seria politica di innovazione scientifica e tecnologica. L’Italia nei primi anni del dopoguerra era all’avanguardia in molti settori: basti pensare ai sistemi di calcolo con l’Olivetti, o al nucleare con il Centro europeo di Ispra e le grandi imprese come l’Ansaldo, o ai nuovi materiali con il premio Nobel a Giulio Natta. Ebbene in questi grandi settori il supporto pubblico sarebbe stato indispensabile: non c’è stato e, nel caso del nucleare, la politica ha addirittura bloccato ogni iniziativa, ricerca compresa.

Un quarto elemento strutturale è dato dalla carenza delle infrastrutture. Basti pensare alla fallimentare politica degli aeroporti con la frammentazione del traffico a tutto vantaggio delle grandi compagnie degli altri paesi. Oppure ai tempi lunghi con cui si è realizzata l’alta velocità e con cui si tenta dopo anni di progetti e discorsi di realizzare opere autostradali importanti come la Brescia-Milano o la Pedemontana.

E da ultimo, ma non meno importante, è l’alto livello di imposizione fiscale e contributiva. La quota del reddito che viene assorbita dal settore pubblico supera il 50%: questo riduce la competitività delle imprese e quindi le potenzialità di crescita.

Se guardiamo a questi cinque temi (e altri peraltro se ne potrebbero aggiungere) abbiamo la dimostrazione di come sia difficile attuare una seria politica di crescita. Perché ci sono elementi, pensiamo alla demografia, che ormai fanno parte delle condizioni di fondo della società: scelte individuali che formano tuttavia una grande dimensione collettiva. Con il rischio tuttavia che prenda sempre più forza una spirale perversa con un aumento del peso dello Stato a cui non corrisponde una maggiore efficienza, ma maggiori sprechi e più forti prelievi fiscali e quindi una crescita economica ancora più difficile.

Di fronte a questa realtà comunque è allo stesso modo sbagliato pensare che non ci siano soluzioni. Ma il primo passo necessario è far ritrovare quella fiducia che non pare essere patrimonio della società attuale, appagata e chiusa nel sottile gioco delle relazioni di potere.