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GIOVANNI PAOLO II

I coniugi Wojtyla verso gli altari

L’arcidiocesi di Cracovia ha ottenuto da parte della Conferenza episcopale polacca l’assenso a rivolgersi alla Santa Sede per l’avvio del processo di beatificazione dei genitori di papa Wojtyla: Karol Wojtyla ed Emilia Kaczorowska. Una famiglia, dunque, in cui si respirava santità.

Attualità 20_10_2019
Giovanni Paolo II

Nel corso del suo pontificato ha elevato agli altari 1.338 beati e 482 santi, cioè: un numero superiore a tutti i santi proclamati dai suoi predecessori messi insieme. È, senza dubbio, il Papa che ha più contribuito a rendere la santità un affare d'attualità, nonché una concreta aspirazione per tutti i battezzati di ogni tempo.

È chiaro che Giovanni Paolo II non poteva che essere un santo, ma ciò che oggi ci giunge come notizia ufficiale è che fu tale anche perché circondato da una intera famiglia di santi.

Detto in altre parole: l’arcidiocesi di Cracovia, nei giorni scorsi, ha ottenuto da parte della Conferenza episcopale polacca l’assenso a rivolgersi alla Santa Sede per l’avvio del processo di beatificazione dei genitori di papa Wojtyla: Karol Wojtyla ed Emilia Kaczorowska.

Vi è da dire però che se, da un lato, la santità del papa polacco si è consumata sotto gli occhi di tutti, suscitando la stima persino del mondo più laico, dei genitori dello stesso Pontefice si è detto pochissimo, se non per via di qualche aneddoto che ne ha fatto presentire un grande affetto nel cuore dei fedeli.

Tra i pochi documenti pubblicati al riguardo, ve n’è uno che riassume con semplicità e grande efficacia la vita di questi speciali coniugi del ventesimo secolo. Si tratta del libro: “Le due madri di papa Wojtyla”, di Renzo Allegri che, a vantaggio del lettore, vogliamo citare in alcuni suoi stralci. Nel testo, infatti, che mutua il titolo dallo stretto legame tra la madre di Giovanni Paolo II e la figura di santa Gianna Beretta Molla, canonizzata e tanto amata dallo stesso Pontefice, emergono numerosissimi particolari sulla famiglia Wojtyla, tutta investita dallo spirito di santità. 

SI RUBARONO IL CUORE

«Emilia Kaczorowska era figlia di un sellaio lituano ed era nata in Slesia il 26 marzo 1884. Aveva otto fratelli. La famiglia si era trasferita a Cracovia quando lei era ancora piccola. Ebbe un’infanzia piuttosto triste, funestata da dolori e disgrazie. In pochi anni perse quattro fratelli e la madre. Crebbe in un collegio delle suore della Misericordia. Poté frequentare solo le scuole elementari, poi dovette pensare a guadagnarsi da vivere. (…) Quando aveva 18 anni, conobbe un soldato, Karol Wojtyla e se ne innamorò».

«Karol aveva cinque anni più di lei, era nato a Lipnik, in una famiglia di sarti, e anche lui aveva imparato il mestiere del sarto, ma lo aveva poi abbandonato per la carriera militare. (…) Secondo un rapporto militare austriaco, il sottoufficiale Karol Wojtyla era giudicato dai suoi superiori “onesto, leale, serio, educato, modesto, retto, responsabile, generoso e instancabile”. Emilia lo conobbe nella chiesa cattolica di Cracovia, che entrambi frequentavano».

I due giovani presto si rubarono il cuore e il 10 febbraio del 1994, a Cracovia, presso la chiesa militare della città, intitolata ai santi Pietro e Paolo, si unirono in matrimonio.

Nel 1906 nacque il loro primo figlio, Edmondo. Per qualche tempo la famiglia Wojtyla trascorse giorni felici e spensierati, prima a Cracovia e poi a Wadowice, dove si dovette trasferire a causa del lavoro di Karol. Ma qui, ben presto, iniziò il tempo della dura prova.

L’ORA DELLA DECISIONE ESTREMA

Già gracile e cagionevole di salute, Emilia aveva faticato a riprendersi dal primo parto: i medici le avevano perciò consigliato di accontentarsi di quell’unico figlio. Ma, nel 1914, la donna rimane incinta una seconda volta, e la nuova nata non visse che poche ore o, forse, pochi giorni. Quasi nulla si sa di questa seconda figlia, chiamata Olga, se non il fatto che dalla sua gravidanza, e morte, Emilia ne usci pesantemente compromessa nel fisico e profondamente segnata nell’animo. I medici questa volta furono tassativi: la donna avrebbe dovuto condurre una vita di massimo riserbo e nemmeno lontanamente avrebbe dovuto pensare ad una ulteriore gravidanza. Ebbene, alla fine del 1919, Emilia si accorse di aspettare un nuovo bambino.

«Aveva già trentacinque anni  e mezzo – racconta Allegri – e la nuova gravidanza si preannunciò subito difficile. I medici dissero che sarebbe stata fatale per lei e per il nascituro: doveva quindi interromperla. Doveva cioè abortire. Il problema era grave. Emilia conosceva bene le proprie condizioni di salute. Sapeva il rischio che correva e avrà pensato a suo marito, a suo figlio Edmondo, che aveva allora quattordici anni, e anche a se stessa. Non è facile accettare di morire a trentacinque anni. Ma era una donna di grande fede. Neppure per un attimo prese in considerazione la prospettiva dell’aborto. Con semplicità estrema si affidò al buon Dio. Mai, per nessuna ragione al mondo, avrebbe impedito a quel suo bambino di nascere: per lui era disposta a morire. I nove mesi di gestazione furono pieni di complicazioni per la salute di Emilia. Il parto si presentò difficile, ma il bambino nacque sano e robusto. Era il 18 maggio 1920».

Lo stesso Giovanni Paolo II raccontò di essere nato verso il tramonto del 18 maggio e che sua madre, finito il travaglio, disse alla levatrice di aprire le finestre della camera affinché il bambino potesse sentire i canti mariani che i devoti eseguivano nella chiesetta vicina, durante la funzione religiosa del mese di maggio.

Come detto, la gravidanza che dette alla luce il futuro Pontefice, fu fatale per la madre: da quel momento Emilia visse nove anni di autentico martirio. I disturbi al cuore e ai reni peggiorarono drasticamente. Le emicranie le imponevano giorni interi a letto, al buio. Il mal di schiena aumentava sempre più e le gambe si gonfiavano a tal punto che raramente ormai riusciva a reggersi in piedi. «Eppure - raccontò la vicina di casa - la signora Wojtyla sopportava il dolore con fede. Non parlava mai dei suoi disturbi e riusciva sempre a mantenere un sorriso dolce e sereno sulle labbra, anche nei momenti di maggior sofferenza. (...) Era sempre molto educata, tipica donna di quei tempi. Era benvoluta da tutti e anche le persone sconosciute si accorgevano di questa sua tranquillità interna e della sua profonda religiosità”. Il 13 aprile 1929, Emilia Kaczorowska, letteralmente consumata dal male, salì al Cielo a soli quarantacinque anni.

UN SEMINARIO DOMESTICO

Così come la madre aveva donato la vita due volte per il suo figlio, partorendolo e facendolo venire al mondo, a costo della sua stessa vita, ugualmente fece il santo papà del futuro Pontefice, divenendo insieme padre e madre del piccolo Karol, dopo la morte di Emilia.

Dopo la mamma, anche il fratello Edmondo li lasciò: divenuto medico, egli morì a soli 26 anni pur di curare una giovane paziente affetta da scarlattina settica e letale, che contrasse lui stesso. Nonostante fosse d'obbligo, in tali casi, l’isolamento e la sospensione delle cure, il giovane medico in coscienza preferì rischiare e perdere la vita, ma non abbandonare la povera sofferente.

Ebbene, da quel momento la vita di Karol senior fu interamente spesa per crescere quell'unico figlio rimasto e, sebbene ancora giovane, il vedovo mai volle risposarsi. Racconta Allegri: «Costruì con il figlio un nucleo familiare affiatato e armonioso, ma guidato da un orario ferreo e militare. Sveglia alle sei, colazione e Messa in parrocchia. Poi Lolek (così usavano chiamare papa Wojtyla in famiglia, ndr) andava a scuola e Karol (allora in pensione) provvedeva a rassettare la casa, a fare il bucato, a rammendare i vestiti e a cucinare. Nel pomeriggio, dopo pranzo Lolek poteva dedicarsi per due ore a giocare con gli amici, quindi studiava con il padre. Verso sera, andavano di nuovo in chiesa insieme, cenavano, facevano una breve passeggiata e andavano a dormire”.

All’amico giornalista francese André Frossard, Papa Karol Wojtyla confidò: «Mio padre era una persona meravigliosa e quasi tutti i miei ricordi dell’infanzia sono legati a lui, i fatti dolorosi che lo hanno colpito, hanno aperto in lui immense profondità d’animo. Tutti i suoi pensieri e grattacapi si trasformavano nella preghiera. Lo vedevo spesso inginocchiato a pregare. (…) Il suo esempio bastava per insegnare la disciplina e il senso del dovere, era una persona eccezionale. (…) Tra noi non si parlava di vocazione al sacerdozio, ma il suo esempio fu per me in qualche modo il primo seminario, una sorta di seminario domestico”.