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IL CASO ITALIA

Il business dell'accoglienza non è vera sussidiarietà

Spesso si sente dire che il sistema di accoglienza italiano risponderebbe al principio di sussidiarietà. Ma è un inganno: le realtà sociali che accolgono dipendono dallo Stato centrale sia per le risorse che per le regole, sono quindi degli esecutori. E vivono fino a che lo Stato desidera che vivano. 

Editoriali 08_02_2020 English Español

È di questi giorni la notizia di un aumento della quota pro-capite giornaliera pagata dal governo agli enti e associazioni che fanno accoglienza degli immigrati nel nostro Paese, dopo la diminuzione decisa dal precedente esecutivo. Come è noto, lo Stato si avvale in questo settore della collaborazione di molte associazioni e cooperative, anche associate tra loro, nella gestione degli appalti governativi pere l’accoglienza. Anche la Caritas svolge un ruolo significativo in questo campo, in rapporto con le Prefetture, in convenzione con gli enti locali, e spesso in associazione temporanea di impresa con organismi sociali di varia provenienza ideologica.

Spesso si sente dire che questo sistema risponderebbe al principio di sussidiarietà che è tipico della Dottrina sociale della Chiesa, anche se è poi stato fatto proprio da altre realtà civili e politiche. Basti ricordare che esso è entrato anche nei trattati europei e ha ispirato la riforma del titolo V della nostra Costituzione. Tuttavia, nella migrazione di questo principio dal contesto originario interno alla Dottrina sociale della Chiesa a questi altri contesti, qualcosa del suo spirito è andato perduto. È questo il caso anche della sua applicazione al campo dell’accoglienza degli immigrati.

I suoi sostenitori affermano che non agendo lo Stato direttamente tramite il proprio apparato amministrativo, ma avvalendosi di soggetti della società civile, applica il principio sussidiario della “prossimità al bisogno”. Siccome gli immigrati dovranno vivere in un certo territorio e dentro un certo contesto sociale, è bene che proprio i soggetti operanti in quel contesto sociale mettano in atto le iniziative per l’accoglienza. In questo modo – si dice – esse saranno più mirate, più efficaci e più dal volto umano, piuttosto che anonimi interventi della pubblica amministrazione condotti da lontano e dal di fuori. Siccome il principio di sussidiarietà dice di iniziare dal basso e di aiutare le realtà sociali che stanno al disotto a svolgere il loro compito, questo schema operativo lo applicherebbe in pieno.

La verità sembra però essere diversa. Il principio di sussidiarietà non consiste in una delega dal centro alla periferia, non prevede una dipendenza della periferia dal centro per quanto riguarda le risorse economiche, non ritiene che la periferia debba applicare le leggi e le norme decise dal centro, non intende la periferia come una camera di compensazione “usa e getta” a seconda delle necessità del centro, non prevede nemmeno che il tutto avvenga dentro una visione del bene comune decisa dal centro e imposta alle periferie.

Nel sistema ora applicato, le realtà sociali che operano sul territorio dipendono dallo Stato centrale sia per le risorse sia per le regole, sono quindi degli esecutori di un mandato che scende dall’alto al basso. Inoltre vivono fino a che lo Stato desidera che vivano: quando non ci fossero più le risorse economiche o cambiassero le politiche dell’accoglienza quelle realtà sarebbero dismesse senza difficoltà né danni per lo Stato, come delle appendici non più utili. Se poi lo Stato avesse maglie larghe nel selezionare i richiedenti asilo dai clandestini e imponesse ai soggetti sociali di accogliere anche i clandestini le coinvolgerebbe in una visione del bene comune problematica e contestabile.

Questa visione del principio di sussidiarietà è di tipo funzionalistico, concepita per permettere al centro di operare in modo più flessibile, articolato e meno costoso da molti punti di vista, non solo da quello economico. È una strategia per cercare di far funzionare meglio l’apparato. Ma alla fine il quadro non cambia, rimane sempre centralistico e verticale e non permette una vera e propria assunzione di responsabilità da parte delle realtà sociali coinvolte. Anzi, ne compromette la vita obbligandole a rapportarsi strutturalmente con il potere politico sia nazionale che locale, a sostenere i partiti governativi che intendono aumentare la quota pro capite giornaliera, o quelli che sono al potere nei comuni per garantirsi il rinnovo delle convenzioni e non dover licenziare i propri dipendenti o soci. Anche in loco, quindi, il principio di sussidiarietà viene disatteso.

Le associazioni e cooperative stesse, in questo rapporto istituzionale, dimenticano la loro origine ideale e dal basso e, quindi, si burocratizzano esse stesse, accettano di fare tra loro alleanze spurie pur di non perdere l’appalto, smettono di cercare finanziamenti volontari e donazioni perché tanto c’è la quota governativa che copre abbondantemente le spese, e alla fine viene compromesso il vero senso della cosiddetta “soggettività della società civile”.

Va infine tenuto presente che, in questo modo, cosa sia il bene comune, a cui è finalizzato il principio di sussidiarietà, viene deciso dallo Stato centrale e applicato uniformemente su tutto il territorio da esso controllato, mentre quello del bene comune è un principio analogico e può e deve essere declinato in modo diverso nelle varie realtà locali.  Ma come è possibile farlo se le realtà sociali coinvolte sono solo degli esecutori di ordini e per di più ben pagati?