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DIBATTITO

Il (dis)ordine dei giornalisti

Se fossimo i primi
a chiedere
l'abolizione
dell'Ordine
daremmo
un buon esempio
di modernità.

Attualità 31_12_2011
tessera dell'Ordine

Ma se i giornalisti non hanno più privilegi a che cosa serve mantenere un Ordine? La domanda potrebbe sembrare retorica o provocatoria, ma può aiutare a riflettere sull’evoluzione di una professione che sta profondamente cambiando.


Mi permetto con queste parole di esprimere qualche pacato dissenso con le tesi di Andrea Morigi espresse qualche giorno fa sulla Bussola Quotidiana. Premetto che faccio il giornalista da quarant’anni, sono iscritto all’Ordine dal 1974 e ho sempre pagato regolarmente oneri e contributi. Ebbene quando sento parlare di “indipendenza ed autonomia della professione” che sarebbe minacciata dalle proposte di abolizione dell’Ordine per le “tentazioni autoritarie” del Governo mi viene sinceramente la pelle d’oca.

Sì perché proprio l’Ordine dei giornalisti, che non esiste in nessun altro paese d’Europa, è invece l’espressione più evidente di una struttura inutile e pletorica, frutto di una logica corporativa e autoreferenziale. Per il rispetto della persona, delle regole, della correttezza dovrebbe essere più che sufficiente il codice penale e il giudizio della magistratura a cui sono sottoposti tutti i cittadini. Per la difesa dei diritti sul posto di lavoro c’è, giustamente, il sindacato: e peraltro quello dei giornalisti è l’unico ordine professionale che riunisce soprattutto lavoratori dipendenti. Per la difesa dell’autonomia professionale entra in gioco la dignità personale, quella che Ciampi chiamava “la schiena dritta”.


E non è certo l’esistenza dell’Ordine che garantisce la possibilità di avere un istituto di previdenza e una Cassa integrativa sanitaria. Basti pensare che l’Ordine esiste dal 1963 mentre l’Inpgi risale addirittura al 1870 e nella forma attuale al 1928. E la Casagit deriva la propria esistenza da norme contrattuali, e quindi definite attraverso il sindacato, e non dall’Ordine.


Se i giornalisti fossero i primi a chiedere l’abolizione del proprio Ordine darebbero un buon esempio di modernità. Così come se fossero disposti ad adattare anche le altre forme di rappresentanza (previdenza compresa) ai profondi cambiamenti che sta subendo la professione.