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SANT'IGNAZIO

Il Papa spiega gli «Esercizi spirituali»

Il 31 luglio Papa Francesco ha celebrato la festa di sant'Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti. Durante la celebrazione della Messa ne ha approfittato per una vera lezione sulla trama essenziale degli «Esercizi spirituali» di sant'Ignazio.

Ecclesia 01_08_2013
chiesa di Sant'Ignazio a Roma

Il 31 luglio Papa Francesco ha celebrato la festa di sant'Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore del suo ordine, i Gesuiti, celebrando la Messa nella chiesa dedicata al santo a Roma.  Ne ha approfittato per una vera lezione sulla trama essenziale degli «Esercizi spirituali» di sant'Ignazio.

Come fa quasi sempre, il Papa ha diviso l'omelia in tre parti, che corrispondono a tre punti fermi della spiritualità ignaziana: «mettere al centro Cristo e la Chiesa; lasciarsi conquistare da Lui per servire; sentire la vergogna dei nostri limiti e peccati, per essere umili». Primo: Cristo e la Chiesa vanno messi al centro. «Lo stemma di noi Gesuiti è un monogramma, l’acronimo di “Iesus Hominum Salvator” (IHS). Ciascuno di voi potrà dirmi: lo sappiamo molto bene! Ma questo stemma ci ricorda continuamente una realtà che non dobbiamo mai dimenticare: la centralità di Cristo per ciascuno di noi e per l’intera Compagnia, che Sant’Ignazio volle proprio chiamare “di Gesù” per indicare il punto di riferimento».  Proprio all’inizio degli Esercizi Spirituali, Ignazio invita a contemplare l'immagine di Gesù Cristo, «nostro Creatore e Salvatore». I Gesuiti sono così incitati «a essere “decentrati”, ad avere davanti il “Cristo sempre maggiore”, il “Deus semper maior”, l’”intimior intimo meo”, che ci porta continuamente fuori da noi stessi, ci porta ad una certa kenosis, ad “uscire dal proprio amore, volere e interesse”».

L'antica domanda degli Esercizi non è mai «scontata»: «è Cristo il centro della mia vita? Metto veramente Cristo al centro della mia vita? Perché c’è sempre la tentazione di pensare di essere noi al centro. E quando un Gesuita mette se stesso al centro e non Cristo, sbaglia».  Alla centralità di Cristo «corrisponde anche la centralità della Chiesa: sono due fuochi che non si possono separare: io non posso seguire Cristo se non nella Chiesa e con la Chiesa». Era il cuore dell'insegnamento di Ignazio: sempre seguire la «Santa Madre Chiesa Gerarchica». «Non ci possono essere cammini paralleli o isolati. Sì, cammini di ricerca, cammini creativi, sì», per cercare nuovi modi di raggiungere le «periferie esistenziali» care al Papa, ma mai separati dalla Chiesa Gerarchica, sempre «in spirito di obbedienza».

Secondo: San Paolo scrive che si sforza di correre verso la perfezione di Cristo «perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo» (Fil 3,12). «Per Paolo - commenta il Pontefice - è avvenuto sulla via di Damasco, per Ignazio nella sua casa di Loyola, ma il punto fondamentale è comune: lasciarsi conquistare da Cristo». Cerco Gesù perché Lui mi ha già trovato. «In spagnolo c’è una parola che è molto grafica, che lo spiega bene: Lui ci “primerea”, “El nos primerea”. È primo sempre. Quando noi arriviamo, Lui è arrivato e ci aspetta». 

Francesco commenta la meditazione sul Regno nella Seconda Settimana degli Esercizi. Cristo Re ci chiama con queste parole: «chi vuol venire con me deve lavorare con me, perché seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria». Questo è lo spirito vero degli Esercizi: »Essere conquistato da Cristo per offrire a questo Re tutta la nostra persona e tutta la nostra fatica; dire al Signore di voler fare tutto per il suo maggior servizio e lode, imitarlo nel sopportare anche ingiurie, disprezzo, povertà». E farsi sempre tre domande: «Che cosa ho fatto per Cristo? Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo?».

Terzo punto: la vergogna, quella che il Papa chiama «la vergogna del Gesuita». La vergogna sbagliata è il rispetto umano: vergognarsi di Gesù. Ma c'è anche una vergogna giusta: «guardando a Gesù, come ci insegna sant’Ignazio nella Prima Settimana, soprattutto guardando il Cristo crocifisso, noi sentiamo quel sentimento tanto umano e tanto nobile che è la vergogna di non essere all’altezza; guardiamo alla sapienza di Cristo e alla nostra ignoranza, alla sua onnipotenza e alla nostra debolezza, alla sua giustizia e alla nostra iniquità, alla sua bontà e alla nostra cattiveria». Gli Esercizi  ci aiutano a chiedere «la grazia della vergogna; vergogna che viene dal continuo colloquio di misericordia con Lui; vergogna che ci fa arrossire davanti a Gesù Cristo; vergogna che ci pone in sintonia col cuore di Cristo che si è fatto peccato per me; vergogna che mette in armonia il nostro cuore nelle lacrime e ci accompagna nella sequela quotidiana del “mio Signore”». Dalla vergogna del peccato viene la vera umiltà,  «che ci rende consapevoli ogni giorno che non siamo noi a costruire il Regno di Dio, ma è sempre la grazia del Signore che agisce in noi; umiltà che ci spinge a mettere tutto noi stessi non a servizio nostro o delle nostre idee, ma a servizio di Cristo e della Chiesa, come vasi d’argilla, fragili, inadeguati, insufficienti, ma nei quali c’è un tesoro immenso che portiamo e che comunichiamo». 

 «A me - ha confidato il Papa - è sempre piaciuto pensare al tramonto del gesuita, quando un gesuita finisce la sua vita, quando tramonta». Francesco ha citato san Francesco Saverio (1506-1552), che muore «guardando la Cina. L’arte lo ha dipinto tante volte questo tramonto, questo finale di Saverio». L'altro esempio - interessante, visti i contrasti che secondo le biografie con lui aveva avuto l'allora padre Bergoglio - è il generale  dei Gesuiti Pedro Arrupe  (1907-1991), che nell'ultimo discorso lascia questa consegna: «Questo lo dico come se fosse il mio canto del cigno: pregate». Alla fine non ci sono più controversie o idee personali. Restano solo la devozione a Gesù e a Maria, tanto cara a Ignazio, la vergogna dei peccati e la preghiera.