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SINISTRA

Il Pd compie 10 anni. C'è poco da festeggiare

E’ nato come partito a vocazione maggioritaria, ma in dieci anni è stato al governo senza aver praticamente mai vinto le elezioni. La storia del Pd è, da questo punto di vista, miracolosa. Ma c'era ben poco da festeggiare il 10mo compleanno del partito, ieri, al Teatro Eliseo di Roma.

Politica 15_10_2017
Gentiloni, Veltroni e Renzi alla kermesse del PD

E’ nato come partito a vocazione maggioritaria, ma in dieci anni è stato al governo senza aver praticamente mai vinto le elezioni. La storia del Pd è, da questo punto di vista, miracolosa. Gli elettori non gli hanno mai attribuito la fiducia per governare, ma ha comunque occupato Palazzo Chigi con suoi uomini a capo di governi di larghe intese, sempre contrassegnati dalla precarietà e dall’improvvisazione. Il 14 ottobre 2007, quando il Partito democratico vide la luce, c’era un barcollante governo Prodi, quello si’ consacrato dalle urne (elezioni 2006), ma con una maggioranza fragile che ha resistito soltanto due anni. Dalle elezioni politiche del 2008, vinte dal centrodestra e da Berlusconi, il Pd è stato dapprima all’opposizione, poi è entrato nel governo Monti e, dopo il voto 2013, quello del pareggio tra i tre poli (centrodestra, centrosinistra e 5 Stelle), ha espresso tre Presidenti del Consiglio, Letta, Renzi e Gentiloni, figli di alchimie di palazzo e sempre bisognosi dell’appoggio di spezzoni di centrodestra (Berlusconi, Casini, Alfano). 

C’era dunque ben poco da celebrare ieri al Teatro Eliseo a Roma, dove il Pd ha festeggiato i suoi dieci anni di vita. Rispetto ad alcuni partiti del centrodestra che non celebrano congressi e non hanno processi di selezione interna credibili e inclusivi, certamente i dem appaiono campioni di democrazia, ma il bilancio dei primi due lustri del partito ora guidato da Renzi rimane deludente. Nel vissuto dei post-ulivisti si registrano una serie di insuccessi, oltre quelli nelle urne, che è opportuno riportare alla memoria. Anzitutto la definitiva liquidazione dell’esperienza del cattolicesimo sociale, che almeno inizialmente nell’Ulivo era riuscita a preservare la sua identità e che nel Pd è apparsa completamente evaporata. Nel programma del partito i riferimenti al pensiero cattolico sono stati progressivamente espunti, perché chi avrebbe dovuto inserirli e preoccuparsi della loro attuazione ha preferito fin da subito rinunciarvi e dedicarsi all’occupazione del potere fine a se stesso. La matrice cattolica rischiava di diventare un imbarazzante condizionamento nell’approvazione di leggi scellerate su temi etici e sensibili, sui quali l’arrendevolezza dei “cattolici” del Pd è subito apparsa disarmante, salvo qualche meritoria ma isolata eccezione.

In dieci anni il partito non è riuscito a frenare l’emorragia di iscritti e ha perso il contatto con tutti quei mondi, sindacale in primis, che nel bene e nel male avevano rappresentato la cartina al tornasole del radicamento sociale della sinistra. Lo snaturamento dell’ispirazione originaria del Pd ha acuito le fratture nei rapporti con il mondo del lavoro e con le categorie professionali, che progressivamente hanno ceduto alle sirene del Movimento Cinque Stelle o a quelle del qualunquismo nichilista di forze antisistema e di aggregazioni di pura protesta.

Sul piano politico, non solo per questione di numeri, il Pd ha subito messo da parte la dichiarata vocazione maggioritaria per abbracciare la logica delle larghe intese con Berlusconi, ufficialmente per assicurare governabilità, in realtà per controllare i gangli vitali della vita del Paese, attraverso la designazione di uomini fidati ma quasi sempre graditi anche al centrodestra. Un inciucio che è andato ben al di là delle manifestazioni più eclatanti (Patto del Nazareno) ed è diventato approccio sistematico nella gestione delle grandi partite finanziarie e industriali, prima ancora che ministeriali e parlamentari.

Infine, il deficit di democrazia interna. Lo strumento delle primarie non ha funzionato, e le accuse di brogli, i ricorsi a colpi di carte bollate un po’ in tutt’Italia lo dimostrano. Ciò ha tolto credibilità alle scelte di vertice del Pd e ha stimolato disaffezione negli iscritti, oltre che accelerare il processo di disgregazione interna, con scissioni e abbandoni.

Non a caso ieri alla kermesse al Teatro Eliseo a Roma era più facile contare i leader presenti che non quelli assenti. Di questi ultimi era facile perdere il conto. Mancavano Romano Prodi, Francesco Rutelli, Massimo D’Alema, Arturo Parisi, Pier Luigi Bersani, e questo si poteva anche prevedere, viste le scissioni e le polemiche degli ultimi anni. Hanno invece suscitato clamore le defezioni di esponenti della minoranza del partito, dal Ministro della Giustizia, Andrea Orlando al governatore della Puglia, Michele Emiliano, da Rosy Bindi a Gianni Cuperlo, senza dimenticare il presidente del partito, Matteo Orfini. E poi anche sui presenti si potrebbe avanzare più di qualche riserva. Il Ministro della Cultura, Dario Franceschini da settimane è in rotta con Renzi, ma ha preferito presenziare all’evento per motivi di opportunità e per non alimentare le voci che lo darebbero a capo di una fronda interna per disarcionare definitivamente il segretario dopo la prevedibile sconfitta alle regionali siciliane del 5 novembre prossimo. Lo stesso Gentiloni non avrebbe potuto non andare, visto che anche lui è considerato uomo del Quirinale pronto a guidare un nuovo esecutivo dopo le elezioni in caso di stallo e di verdetto incerto. Una sua assenza sarebbe stata letta come la riprova del fatto che il premier si sta da tempo smarcando dall’abbraccio mortale di Renzi. Quest’ultimo, dal canto suo, nonostante tutto, anche ieri ha mostrato la sua inguaribile sfrontatezza ribadendo: “Il candidato premier resto io”.