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INGIUSTIZIA

Il tribunale censura chi svela le coop

Una sentenza del Tribunale di Milano condanna il patron di Esselunga, Bernardo Caprotti, anche se il suo libro non contiene notizie diffamatorie.

Attualità 22_09_2011
Falce e Carrello Non importa se la notizia non è diffamatoria. Ciò che conta è che abbia comunque arrecato un danno alle coop. E pertanto, quel danno, inquadrato come concorrenza sleale va punito e censurato fino a “bruciare” il libro che lo ha prodotto.

E’ questo il senso della sentenza del Tribunale di Milano
, sezione civile, che il 14 settembre scorso ha condannato il patron di Esselunga Bernardo Caprotti al pagamento di 300mila euro a Coop Italia, la centrale dei colossi cooperativi della grande distribuzione. Finisce così con una sentenza insolita, uno dei round della querelle che da decenni ormai oppone le coop a Caprotti, anche con sentenze in passato a lui favorevoli.

Due mondi e due visioni contrapposte del mercato nello stesso mondo
fatto di surgelati e detersivi, dove la guerra non solo commerciale ha assunto rilievi culturali e politici, soprattutto dopo la pubblicazione da parte di Caprotti del libro “Falce e Carrello”.

Un testo scomodo, politicamente scorretto,
dove Caprotti non fa altro che raccontare al lettore le vicissitudini che la sua azienda ha passato quando ha deciso di mettersi in concorrenza con le coop, secondo le regole del libero mercato, e andare ad aprire, soprattutto in Emilia Romagna, Liguria e Toscana, i suoi superstore. Praticamente in casa del “nemico” e con l’ombra delle amministrazioni rosse piegate a favore delle coop.

Caprotti in quel libro racconta, senza accusa di smentita,
aneddoti che fanno ormai parte della storica battaglia tra il sistema cooperativo e l’azienda dell’86enne imprenditore brianzolo. Aneddoti che, pur non essendo riconosciuti come diffamatori dal giudice, sono comunque sleali e pertanto da punire.

Con la decisione di ritirare dal commercio il libro,
il giudice ha poi introdotto un tema che non mancherà di fare discutere: spariti i roghi sulla pubblica piazza oggi ci si accontenta di un burocratico ritiro dagli scaffali delle librerie. Il risultato però è sempre lo stesso: l’odiata censura, che in Italia ha visto in dieci anni, appena due libri all’indice. Con questo, tre.

Ma andiamo con ordine. Il libro, edito da Marsilio nel 2007 e corredato da una prefazione di Geminiello Alvi e da un’appendice del giornalista Stefano Filippi (anche loro condannati con Caprotti per illecita concorrenza) è raccontato in prima persona da Caprotti, che illustra il sistema con cui le coop della grande distribuzione hanno letteralmente messo i bastoni fra le ruote a Esselunga.

Secondo il giudice monocratico che ha emesso la sentenza però,
gli scritti, potranno anche essere offensivi, ma non sono diffamatori, come invece sostenuto da Coop Italia, che in nome di tutte le altre coop della gdo, aveva portato avanti una delle cause con l’accusa di diffamazione e concorrenza sleale. Dunque si tratta di un'inchiesta giornalistica a tutti gli effetti, legittimata dal diritto di critica e di cronaca garantito dall’articolo 21 della Costituzione. Un articolo che viene sbandierato ogni qual volta la libera-stampa-anti-bavaglio vuole rimarcare la propria indipendenza dai “padroni del vapore”.

In questo caso però, si registra la totale assenza di commenti e prese di posizione
da parte dell'ordine dei giornalisti, per il quale evidentemente ci sarebbero libertà e libertà. A questo punto sorge il quesito: come fa una cronaca-critica rispettosa dell’articolo 21 ad essere sottoposta a censura? Non è una contraddizione? E come si sposa questo concetto con il gran parlare di libertà d'informazione che sentiamo dai soliti soloni?

In attesa che qualcuno ci illumini è bene ripercorrere la storia del libro
di Caprotti per comprendere qual è la posta in gioco nella lotta a colpi di querele e richieste di risarcimenti tra Coop e Esselunga.

E nello specifico ricordare due dei tanti episodi
su cui Caprotti costruisce il suo pesante j'accuse al sistema. I più eclatanti. Il primo è relativo ad un terreno in via Canaletto a Modena che Esselunga, con un socio controllava per l’82%. Per la restante parte intervenne Coop Estense che si aggiudicò all’asta quel piccolo appezzamento a peso d’oro, quattro volte il suo valore. Il motivo? “Stoppare il concorrente Esselunga”. Così titolarono i giornali locali negli anni ’90 quando emerse la querelle. Divenuta proprietaria di quella porzione minoritaria di terreno, Coop Estense fece rimettere in discussione il piano particolareggiato del Comune, pretendendo che le venisse attribuito il supermercato. A nulla valsero i diritti edificatori di Caprotti. Quel terreno è ancora a Modena incolto, abbandonato per impedire all’odiato concorrente di edificare il superstore.

Cambiando provincia, precisamente a Bologna, in quel di Casalecchio di Reno,
Caprotti racconta poi la surreale vicenda di un terreno acquistato da Esselunga, nel quale, malauguratamente è il caso di dire, vennero trovati dei resti etruschi, che fecero immediatamente stoppare i lavori. Seguirono mesi di snervanti trattative tra Caprotti, la Sovrintendenza e il Comune. Niente da fare: i resti andavano tenuti in loco. Così Caprotti decide di abbandonare l’area. Ma alcuni mesi più tardi, si scopre che Coop Adriatica aveva acquistato quel terreno e ottenuto dai Beni culturali lo spostamento in altro loco di quei reperti archeologici. Perché? E’ questo il cuore del libro di Caprotti.

L’intreccio con le amministrazioni rosse e la cinghia di trasmissione
tra il Pci-Ds-Pd e il mondo cooperativo non si era mai interrotta. La cosiddetta cinghia nacque nel 1946 a Reggio Emilia, quando Togliatti per sedare gli ormai imbarazzanti crimini del triangolo della morte, fece il famoso discorso al teatro Valli dei “Ceti medi ed Emilia rossa”, in cui inquadrava le “plebi rurali povere” nelle cooperative, nelle Camere del lavoro, nelle sezioni di un partito politico nazionale (il Pci) che avevano “acceso nell’animo loro la fede inestinguibile di un avvenire migliore, nella redenzione del lavoro da ogni sfruttamento e da ogni oppressione”.

Incominciava così un rapporto, quello tra il mondo cooperativo e il Pci,
che si è retto fino ad oggi tra commistioni e uomini di fiducia che negli anni sono passati da questi a quelli, dalla politica alla cooperazione, secondo un metodo clientelare sotto gli occhi di tutti. Un rapporto che ha costruito il monopolio delle coop, non solo della grande distribuzione, in Emilia e in altre regioni rosse e che ha retto a tutti gli urti.

Anche ai tentativi di Caprotti di insediarsi in un mercato molto, ma molto rischioso.
E’ lo stesso Caprotti a raccontarlo nel libro, del quale a questo punto non si capisce più se sia reato anche solo il parlarne. Lo stesso Caprotti che ieri, intervenendo per la prima volta dopo la sentenza, sul Corriere della Sera, ha ribadito la necessità di denunciare “la stravaganza di quel sistema”.

“Fu Prodi a farmi decidere di scrivere quel libro”, ricorda Caprotti.
Era il 2004 e l’azienda versava in cattive acque per colpa di una gestione dissennata da parte di alcuni manager. Si parla di cessione di Esselunga agli stranieri. A quel punto intervengono le coop che si dicono disponibili per il bene del made in Italy a rilevare l’azienda di Caprotti. A sinistra ci si mettono un po' tutti, Bersani compreso, a far passare il concetto di un acquisto provvidenziale di Esselunga da parte delle coop per il bene dell'italianità. Ci si metterà anche Prodi, che, in diretta a Porta a Porta, sentenziò: “Ci sono le coop e c’è ancora Esselunga. Il governo le può mettere insieme”.

Fu quella la molla che spinse Caprotti a scrivere il libro denuncia,
campione di incassi in libreria e oggi nel mirino della censura, non perché dice cose diffamatorie, ma semplicemente perché data l’eco della pubblicazione, le coop ne uscivano danneggiate.