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DDL Zan

“Io, omosessuale, vi dico perché il Ddl Zan è contro la libertà”

Giorgio Ponte, omosessuale e insegnante, ripercorre la sua vicenda personale in questa intervista con la Nuova Bussola e critica il Ddl Zan: «Il vero movente della legge è limitare la libertà di parola».

Gender Watch 10_07_2020

Il suo nome era salito alla ribalta ai tempi dei Family Day e dell’approvazione della legge sulle unioni civili. Suscitò sorpresa che un giovane dalle tendenze omosessuali dichiarate si potesse schierare in modo inequivocabile a difesa della famiglia naturale. A distanza di cinque anni, mentre in commissione alla Camera è in discussione il ddl Zan contro la cosiddetta “omotransfobia”, Giorgio Ponte, 36 anni, palermitano trapiantato a Milano, insegnante (dopo aver insegnato religione cattolica per qualche tempo alcuni anni fa, adesso è docente di italiano e storia) e scrittore di romanzi, è tornato a manifestare il suo pensiero. Lo ha affermato sul suo blog e lo ha ribadito nella seguente intervista concessa alla Nuova Bussola Quotidiana la nostra libertà è fortemente a rischio.

Giorgio Ponte, sono passati cinque anni dal tuo “coming out”: a un articolo su Tempi, seguì una testimonianza su TV2000. Da allora cosa è successo e come procede il tuo cammino spirituale e umano?

 

Tutto nacque alla fine del 2014, al termine di una mia partecipazione a una veglia delle Sentinelle in Piedi. Mi aveva particolarmente commosso la lettura della testimonianza di un omosessuale cattolico francese, che ci incoraggiava nella nostra battaglia per la libertà di espressione. Un giornalista di Fanpage mi si avvicinò e mi domandò il motivo della mia commozione. Sentivo che, prima o poi, avrei dovuto dire la verità e colsi quell’occasione preziosa: dissi che ero stufo di quanti pretendevano di ridurre la mia vita alle mie tendenze sessuali e che mi ero sentito molto più discriminato dal movimento Lgbt in quanto cattolico, che non dalla Chiesa in quanto omosessuale. Piangevo perché mi faceva soffrire vedere fratelli che ci insultavano quando io ero in piedi per difendere anche la loro libertà. L’intervistatore rimase a bocca aperta. Forse aveva attrazione omosessuale, perché aveva gli occhi lucidi anche lui. Poi la sera stessa vidi il servizio su Fanpage e notai che la mia testimonianza non era stata pubblicata, mentre avevano dato spazio alle poche persone che avevano fatto commenti offensivi (ovviamente qualcuno che parla a sproposito in una manifestazione aperta lo trovi ovunque…). Sentii come se mi avessero censurato e capii che dovevo assolutamente venire allo scoperto. Dopo il mio primo articolo e la mia prima apparizione televisiva, qualcuno ventilò la possibilità di fare una testimonianza al primo Family Day di piazza San Giovanni, del 20 giugno 2015: declinai perché temevo che un tempo troppo ristretto avrebbe reso il mio discorso strumentalizzabile. In seguito me ne pentii: avevo lasciato parlare la paura. Nei due-tre anni successivi ho molto girato l’Italia per conferenze e dibattiti nelle parrocchie e nelle scuole. Ai tempi ero insegnante di religione abilitato, ma non mi richiamarono più. Non mi diedero mai una vera spiegazione del perché, comunque nei tre anni successivi ho vissuto completamente abbandonato alla Provvidenza e non mi è mai mancato nulla. In quel momento tutto quello che dovevo fare era scrivere e rendere testimonianza di quello che Dio aveva fatto per me: “cercate il Regno di Dio e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt 6,33) è qualcosa di assolutamente vero, l’ho sperimentato nella mia vita.

Hai spesso raccontato di come la Chiesa ti ha maternamente sostenuto nel tuo cammino umano e spirituale e nel vivere cristianamente la tua inclinazione. Oggi però la Chiesa è divisa e al suo interno emergono correnti “arcobaleno” che suggeriscono benedizioni e ritiri per le coppie dello stesso sesso, persino corsi di fedeltà per le stesse coppie…
I gruppi cosiddetti gay cattolici cui ti riferisci sono gruppi che di “cattolico” hanno solo il nome. Semplicemente avallano la logica dei movimenti Lgbt, mettendoci “una croce davanti”, con uno spiritualismo romantico di fondo del tipo: “L’importante è aiutarti a vivere una relazione stabile”. Senza capire che c’è una ragione psicologica precisa per la quale le relazioni omosessuali non sono destinate ad essere stabili e fedeli sul lungo termine. Di contro ci sono i cattolici più rigidi che, pur contrastando giustamente l’ideologia gender, tendono a sminuire il vissuto di chi ha una simile attrazione, convinti che essa sia un problema di pochi e che non meriti attenzione, senza rendersi conto che i problemi degli omosessuali sono i problemi di tutti: intendo dire che chi ha un’attrazione omosessuale ha solo il sintomo più evidente di una ferita dell’identità che oggi accomuna la maggioranza delle persone. In fondo, entrambe queste correnti fanno lo stesso errore: concentrarsi sul sintomo superficiale, cioè l’attrazione, senza prendersi la responsabilità di andare a fondo di essa, per chiedersi di cosa sia segno; quale sia il bisogno di identità profondo e legittimo che nasconde, la ferita che la genera e che necessita di essere guardata, per prendersene cura. Per quanto mi riguarda io ho avuto detrattori da entrambe le parti, poiché non riuscivo a rientrare pienamente in nessuno dei due schemi: sono troppo cattolico per i gay cattolici, troppo omosessuale per i cattolici rigidi; troppo psicologico per chi viene guidato spiritualmente alla castità e troppo spirituale per chi tenta la terapia riparativa. Col risultato che persino alcuni di quelli che avrebbero dovuto sostenermi mi hanno abbandonato: un certo tipo di Chiesa che era più preoccupata dell’opinione pubblica che di sostenere la verità; alcune realtà con cui combattiamo la stessa battaglia, ma per le quali - per il fatto che ancora provassi attrazione e non ne avessi timore - non ero visto come “adeguato”.

Vivere un’inclinazione omosessuale in armonia con l’insegnamento della Chiesa è in contrasto con l’accettazione della propria omosessualità?
Assolutamente no: è chiaro che chiunque, per poter stare bene, ha bisogno prima di tutto di accettarsi integralmente, in ogni aspetto di sé, e l’omosessualità in questo non fa differenza. Il punto è che questa accettazione non deve essere passiva, come una condanna che ti capita tra capo e collo. Accettare ciò che proviamo è l’unico modo per poterlo guardare in verità e tentare di capire cosa farci. Non dobbiamo esaltarlo, ma non possiamo nemmeno nasconderlo per sempre come se fosse un marchio di ignominia. Questo è uno dei motivi per cui molti omosessuali fuggono dalla Chiesa: perché non trovano in Essa un luogo che li faccia sentire accolti, dove si possa parlare della loro fragilità senza timore. Il paradosso è che chi sa la verità e cerca di vivere nella castità la sua condizione, viene spinto quasi a vergognarsi di ciò che vive (“meglio che di questo non parli con nessuno”), mentre chi vive nella menzogna, abbraccia la vita gay e non crede nell’insegnamento del Vangelo, viene spinto a raccontare la sua esperienza di “cattolico” dappertutto. Una persona omosessuale che vuole vivere nella verità della Chiesa, non deve farlo nel segreto, sia perché non è evangelico (una lampada non è fatta per essere messa sotto a un letto), sia perché psicologicamente non aiuta: ti fa sentire uno schifo, arrivi a pensare che c’è una parte di te che non può essere amata, e che quindi TU non puoi essere amato. Chiunque, omosessuale o meno, deve accogliere la propria fragilità nella consapevolezza di essere degno di essere amato sempre, non soltanto se sei bravo. Ma questa è un’esperienza che non puoi fare se ti nascondi. Al contrario, uno che è libero di parlare della propria ferita, può cercare di viverla più facilmente in base a ciò che il Magistero ancora propone per tutti, cioè a partire dalla castità, col sostegno dei fratelli e senza paura di parlare delle proprie cadute.

Come rispondere a chi dice che “omosessuali si nasce”?
Veniamo da almeno quarant’anni di indottrinamento mediatico in cui ci è stata trasmessa quest’idea: è un modo per liberarsi da ogni responsabilità e dai sensi di colpa che si pensa siano alla base di quel disagio che in molti hanno provato, e che però non dipende da fattori esterni. I due concetti però non sono equivalenti: dire che c’è una ragione psicologica alla base dell’omosessualità non implica per questo una colpevolizzazione delle proprie pulsioni. Non vuol dire che qualcuno “scelga” di provare attrazione, o ne abbia “colpa”. Noi non scegliamo le nostre ferite, come non scegliamo cosa provare, ma questo non vuol dire che con entrambe le cose non possiamo scegliere cosa farci. Conoscere le motivazioni profonde della propria omosessualità restituisce libertà rispetto a ciò che si prova: se sai perché lo provi, se sai in cosa consiste la tua ferita, sai di cosa hai bisogno davvero e come non rischiare di usare l’altro per colmare il tuo vuoto. A volte tale libertà si riduce solo allo scegliere di chiedere aiuto, ma è comunque una libertà maggiore di chi subisce ciò che prova senza capirlo, lasciando che lo sovrasti.

Recentemente hai ripreso l’insegnamento: ti capita di parlare della tua vita con i tuoi studenti?
La scuola dove ho iniziato a insegnare a settembre, l’ho accolta come un dono della Provvidenza. È un istituto di ispirazione cattolica, c’è una vera attenzione alle persone. La preside mi conosceva, aveva letto i miei libri, sapeva delle testimonianze. I ragazzi hanno scoperto la mia vicenda personale da Internet: un giorno una collega mi ha riferito di averli visti ridacchiare guardando un mio video. Ho affrontato la questione con serenità parlando loro direttamente: “Capisco che possa essere strano avere un insegnante che racconta i suoi fatti privati online. Se volete, affrontiamo il tema in maniera più approfondita e io vi spiego la mia esperienza. Non pretendo che dobbiate capire tutto questo, né è necessario che ne parliamo, ma sono disponibile a rispondere a qualsiasi domanda, se ne avete”. Sono rimasti spiazzati, non volevo si creasse un tabù. È stato molto bello. I ragazzi di oggi, indipendentemente dal loro orientamento sessuale, mostrano tutti i sintomi psicologici tipici di chi ha ferite dell’identità: dipendenza dalla masturbazione, dal gioco, dalla pornografia, dipendenze affettive varie, incapacità di strutturare amicizie stabili, incapacità di assumersi responsabilità, paura di affrontare i conflitti, ribellione alle regole. Tutti sintomi legati alla ferita dell’identità maschile. Nel confrontarsi con me, tanti hanno riconosciuto che alcune delle cose che dicevo loro gli tornavano.

Sarà ancora possibile raccontare storie come la tua con il Ddl sull’omofobia?
Varare una legge su qualsiasi tema non è una semplice questione amministrativa: essa pone il discrimine fra ciò che è lecito e ciò che non lo è; quindi, per un’errata associazione di idee, divide nella percezione della gente ciò che è bene da ciò che è male. Un comportamento legalizzato sarà percepito come giusto, anche se non è detto che lo sia e viceversa. Pensate alle leggi razziali: migliaia di persone che fino al giorno prima avevano trattato i propri vicini ebrei come amici, dall’oggi al domani iniziarono a credere che fosse giusto perseguitarli. Nel caso di questa legge, il pericolo sta nel fatto che non viene definito cosa si intenda per “discriminazione” e “incitamento all’odio” delle persone omosessuali, rischiando di lasciar passare l’idea che sia interpretabile come discriminatorio, e quindi illegale (e quindi male), tutto ciò che sia contro l’ideologia Lgbt, anche una semplice opinione espressa pubblicamente. Il fatto è che i concetti di discriminazione e di incitamento all’odio non sono misurabili né definiti a livello giuridico. Tutto è rimesso alla discrezione e alla soggettività del giudice. Per questo, il vero movente della legge è limitare la libertà di parola, in quanto chi vuole mettere in galera coloro i quali hanno una visione dell’uomo “tradizionale”, spesso percepisce le affermazioni contrarie alle sue come un’offesa o una critica personale. Il problema non è sempre di chi fa affermazioni presunte “omofobe”, ma spesso è di chi le vive come tali, assolutizzando il senso di persecuzione che si porta addosso. In ogni caso, anche se fosse fatta una legge più chiara nel definire in modo oggettivo il reato di omofobia, essa sarebbe comunque un grave atto di discriminazione anticostituzionale, poiché creerebbe una categoria di persone privilegiata rispetto alle altre contravvenendo al principio della Costituzione che afferma che tutti siamo uguali di fronte alla legge.