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UN PAESE, UN SISTEMA

La Cina si prende Hong Kong con la legge sulla "sicurezza"

Alla fine del mese potrebbe cessare, di fatto, l’autonomia di Hong Kong. La Cina sta per approvare una legge sulla sicurezza nazionale che scavalca le istituzioni locali e conferisce alle forze dell'ordine, anche quelle dipendenti da Pechino, il potere di reprimere ogni dissenso. Allarme fra gli attivisti democratici e anche nella Chiesa. 

Esteri 23_05_2020
Carrie Lam all'Assemblea Nazionale del Popolo (Pechino)

Alla fine del mese potrebbe cessare, di fatto, l’autonomia di Hong Kong. La Cina sta per approvare una legge sulla sicurezza nazionale che scavalca le istituzioni locali e conferisce alle forze dell'ordine, anche quelle dipendenti da Pechino, il potere di reprimere ogni dissenso. Potrebbe essere la fine di una lunga storia iniziata con gli accordi anglo-cinesi del 1984-85 per la riconsegna dell’ex colonia britannica alla Repubblica Popolare e culminata con il ritorno di Hong Kong alla Cina nel 1997 sulla base del principio “un Paese, due sistemi”: appartenenza formale al Paese comunista, ma indipendenza di fatto di un Paese regolato da norme ancora britanniche. In teoria questa piena autonomia avrebbe dovuto essere rispettata dal regime comunista cinese fino al 2047. Il mese prossimo potrebbe finire con un anticipo di 27 anni.

Sulla carta, secondo Pechino, il principio resta intatto. Anzi, la nuova legge servirà a perfezionarlo. All’Assemblea Nazionale del Popolo (Anp), nel suo rapporto sull’operato del governo, Li Keqiang ha dichiarato che la Cina attuerà in modo “accurato” il principio “un Paese, due sistemi” e quello per cui “il popolo di Hong Kong governa Hong Kong”. Il primo ministro cinese ha dichiarato che la regione si doterà di una legge che garantisca la sicurezza nazionale che verrà stilata dall’Anp. Dovrebbe proibire e prevenire “secessione, attività sovversive, interferenze straniere, terrorismo, offese contro la madrepatria”. La risoluzione sulla sicurezza nazionale sarà al quinto punto dell’agenda dell’Anp, che dovrebbe essere discusso il 28 maggio. Si tratta di una norma in 7 articoli, il più controverso dei quali è il quarto. Questo articolo prevede che il Governo centrale del popolo (Pechino) potrà, quando necessario, istituire ad Hong Kong delle proprie agenzie di sicurezza per “salvaguardare la sicurezza nazionale, nel rispetto della legge”.

È la seconda volta che si prova a far passare una legge per la sicurezza nazionale a Hong Kong. La prima fu proposta dal governo honkonghese nel 2003, mentre Pechino era apparentemente estraneo. L’appiglio legale era l’articolo 23 della Basic Law, la mini-costituzione lasciata in eredità di britannici quando riconsegnarono la città alla Cina, secondo cui Hong Kong deve dotarsi (autonomamente) di una normativa sulla sicurezza nazionale, che conferisce maggiori poteri alla polizia e vieta secessione, sedizione e sovversione. Ma le manifestazioni pacifiche dei cittadini fecero una pressione tale sull’esecutivo da fargli fare marcia indietro. La data del 1 luglio (2003) tuttora è celebrata come ricorrenza in difesa della democrazia. Ma adesso? La Cina continentale non si fa scrupolo di agire direttamente, a volto scoperto, con una votazione di cui si sa già l’esito che avverrà direttamente a Pechino, scavalcando Hong Kong.

Chris Patten, ultimo governatore britannico di Hong Kong ritiene che lo spirito della nuova legge sia in violazione degli accordi fra Londra e Pechino: «Questo è scandaloso, un attacco all’autonomia di Hong Kong. La legge sulla sicurezza viola la Dichiarazione sino-britannica del 1985, che ha regolato il passaggio della città dal controllo di Londra a quello di Pechino, e che obbliga i cinesi a rispettare i diritti e le libertà democratiche degli hongkonghesi fino al 2047. Il governo inglese e quello statunitense dovrebbero protestare con la Cina».

Gli attivisti pro-democrazia di Hong Kong sono estremamente allarmati. Secondo Lee Cheuk-yan, sindacalista, testimone del massacro di Tienanmen ed ex membro del Consiglio legislativo di Hong Kong: «È la completa distruzione dell’autonomia di Hong Kong. Con la nuova legge, il Partito comunista cinese può creare un Ufficio locale per la sicurezza nazionale: segno che vuole assumere il pieno controllo degli affari cittadini». Ad essere allarmata è anche la Chiesa, considerando che Hong Kong è, per ora, l’unica oasi di libertà religiosa in Cina. Jacky Hung, membro della Commissione Giustizia e pace della diocesi di Hong Kong dichiarava ieri: «Siamo preoccupati del fatto che il provvedimento potrà essere usato per sopprimere la libertà religiosa: Hong Kong dovrebbe dotarsi del suffragio universale prima di adottare leggi sulla sicurezza nazionale».

La nuova proposta di legge non giunge propriamente come un fulmine a ciel sereno. Negli ultimi mesi, anche approfittando del fatto che, per le misure anti-epidemia, non si può manifestare, la repressione sta aumentando un passo alla volta. Era da aprile che l’Ufficio di collegamento della Repubblica Popolare “suggeriva” di adottare una nuova legge sulla sicurezza nazionale. Il 18 aprile erano stati arrestati (e poco dopo rilasciati) 15 protagonisti della causa filo-democratica, fra cui l’imprenditore ed editore cattolico Jimmy Lai, Lee Cheuk-yan e Martin Lee, noto come uno dei padri della causa democratica hongkonghese. L’8 maggio uno studente che ha partecipato alle manifestazioni del 2019 è stato il primo a subire una condanna a 4 anni di carcere. Erano avvertimenti chiari e, come se non bastasse, il 15 maggio l’inchiesta condotta dal governo ha completamente assolto le azioni di polizia contro i manifestanti, nella repressione delle proteste del 2019. Dando l’impressione, ad una popolazione sempre più lontana dalle sue istituzioni, che l’agire degli agenti di polizia sia ormai arbitrario. Con il pretesto del coronavirus, poi, la governatrice Carrie Lam ha esteso le misure di sicurezza, che vietano ogni assembramento, fino al 4 giugno. Se confermata, questa estensione, impedirebbe la celebrazione pubblica della memoria delle vittime del massacro di Piazza Tienanmen. Hong Kong è l’unico angolo di Cina in cui se ne può parlare liberamente, almeno finora.