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INTERVISTA

«L’amicizia tra le famiglie è per la missione»

Don Giuseppe Nevi, sacerdote di 55 anni, da 14 è responsabile della pastorale familiare della diocesi di Cremona. Don Giuseppe segue le famiglie appena formate e le aiuta a diventare sempre più coscienti del grande dono ricevuto.  Così sono nate fraternità di famiglie che vivono in comunione all'interno di una cascina, altre vivono da sole, ma tutte mantengono un legame molto forte fra loro. Ecco il suo racconto. 

Famiglia 27_05_2016
La famiglia è per la missione

«È dalla comunione in famiglia che nasce la Chiesa». Non è un proclama quello di don Giuseppe Nevi, il sacerdote di 55 anni che da 14 è responsabile della pastorale familiare della diocesi di Cremona, ma una realtà i cui frutti sono sotto gli occhi di tutti: sposi che, educati alla scoperta del «dono potente del sacramento nuziale», fanno della loro unità «una comunione di famiglie vissuta come una missione». E non c'è progetto umano, n'è strategia mondana che abbia prodotto frutti così copiosi anche per le parrocchie della diocesi, ma solo la fede in Dio.

Don Giuseppe cosa significa per lei la parola "pastorale familiare", oggi così in voga e spesso nominata solo in riferimento ai matrimoni in difficoltà?

«Non bisogna partire dalle difficoltà, ma accompagnare gli sposi fin da subito a comprendere la profondità del dono del sacramento che, se consapevole, ha potenzialità enormi. Perciò, appena sposati, offriamo loro una lunga formazione catechetica che dura cinque anni. Grazie a questa si scopre che cosa significhi che il sacramento è il dono dell'amore di Cristo agli sposi, il solo che permette loro di amarsi come Lui ci ama. Quando si comincia vivere sperimentando questo, allora si capisce immediatamente l'esigenza di fare della propria vita una missione e si comprende che il compito e il respiro del matrimonio è proprio l'edificazione della Chiesa».

Può fare degli esempi concreti??

«Dalla catechesi è nata un'associazione di fraternità di famiglie che vivono in comunione all'interno di una cascina, mentre altre vivono da sole, ma mantenendo un legame molto forte fra loro. Sono stati gli sposi stessi che, alla luce della scoperta del sacramento vissuto, hanno deciso di avviare questa esperienza. Inoltre, la loro amicizia viene messa al servizio delle parrocchie in cui diffondono l'esperienza che fanno».

Come si svolge la vita delle famiglie?

«Alcune famiglie sono suddivise in cenacoli di preghiera, ciascuno composto al massimo da cinque nuclei. Siccome la famiglia non regge senza preghiera al suo interno, insieme ai figli, si recita quotidianamente il Rosario. Ogni nucleo prega poi per gli altri. E ogni giorno si medita il Vangelo, riprendendo la "lectio divina" che io stesso preparo mensilmente. Sempre una volta al mese abbiamo l'adorazione eucaristica comunitaria. Ci sono poi gli incontri settimanali per la formazione cristiana e una volta all'anno ci si ritrova per un seminario in cui si affrontano determinati temi come quello dell'ideologia gender, minacciosa per le famiglie e i figli, o quello dei princìpi non negoziabili, purtroppo non sufficientemente compreso come necessario al cammino di fede. Infine, ogni cenacolo ha una missione: c'è chi porta avanti la catechesi per i bambini coinvolgendo le famiglie, chi fa a sua volta la catechesi ad altre famiglie, chi si sta orientando verso il ministero della preghiera. Questa vita fondata su Cristo, e non sui nostri sforzi, è la sola che può generare un'amicizia operativa fra famiglie, che poi condividono ogni aspetto quotidiano dell'esistenza».

Perché queste esperienze sono così rare oggi in una Chiesa che ne ha quanto mai bisogno?

«La Chiesa si sta dimenticando, o forse non ci crede più, del fatto che il sacramento è davvero l'azione gratuita di Dio. Spesso si fanno percorsi formativi e corsi prematrimoniali impostati su un tentativo moralistico di volersi bene, che alla fine si riduce a una serie di compromessi e sopportazioni, vista l'incapacità dell'uomo ad amare davvero. Inoltre i corsi fidanzati non bastano, perché se davvero il sacramento è reale uno lo può comprendere davvero solo dopo che lo ha ricevuto. Serve quindi una formazione umana, di preghiera, di fede e comunione su cui poggiare il legame, che così diventa un punto di sicurezza e quindi di libertà reale».

Eppure si parla continuamente della famiglia come di un modello ideale, in cui chi lo raggiunge è fortunato e chi no non è da compatire. Come guardare, invece, alla Sacra Famiglia?

«La sacra famiglia non è un modello, ma un luogo dove si incontrano le vocazioni delle persone che la compongono. Il figlio si realizza nella sottomissione al padre, il padre nella missione affidatagli da Dio. Mentre la madre nella partecipazione, fin dall'eternità, al destino del figlio. È solo nella fede, nella formazione, nella preghiera e nei sacramenti che Dio stesso ci dà le energie per vivere la vocazione all'interno della famiglia. Che, ripeto, non è uno sforzo ma un dono».

Perché il mondo moderno teme legami così forti?

«I matrimoni non falliscono per incapacità umana, ma per poca coscienza del sacramento. Pensando che sia un problema di sforzo la gente teme: sa di non poter contare sulle sue forze. E non conoscendo la via per trarre forza da Dio si arrende. È così che il mondo è divenuto schiavo della solitudine. Resta però nel cuore di ogni persona il bisogno profondo di legami veri e duraturi. Si può dire che l'uomo contemporaneo ne è ancor più affascinato, ma nello steso tempo teme di perdere una libertà fittizia. Di fronte alla comunione vissuta si percepisce un fascino ma con problematicità. Perciò bisogna avere pazienza, continuando a battere la strada della formazione, della preghiera e della comunione. Non bisogna poi dimenticare d'insegnare ai giovani l'alfabeto della relazione, perché non lo conoscono più. Non comprendono le differenze basilari fra uomo e donna e così non riescono a dialogare, ad accogliersi, a sorreggersi e ad aspettarsi. Da qui nascono molti equivoci e distanze».

Che altre emergenze riscontra?

«Credo che la Chiesa debba smettere di usare il linguaggio ambiguo dell'amore. Non ci si sposa perché ci si ama, ma ci si sposa per amare, cioè per sacrificarsi. E quindi realizzare se stessi. Inoltre ci vuole una fede incarnata. Infatti, il matrimonio è inscritto nella carne degli sposi, per questo per compiersi ha bisogno della differenza sessuale. Senza questa non ci sono comunione e amore possibili. Come dice il filosofo francese Fabrice Hadjadj in "La mistica della carne", il sacramento è oggettivo e passa dalla differenza fisica dei corpi. Solo questa oggettività ci libera dalla schiavitù e dalla confusione dei sentimenti, che confondono e sballottano, lanciandoci in una missione più grande. É questa la vera libertà».