Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Marco a cura di Ermes Dovico

TEATRO

L'importanza di chiamarsi Pietro

Dalla conversione sul set di La passione di Cristo, di Mel Gibson, a un monologo sull'apostolo scelto da Gesù per guidare la Chiesa, con cui condivide il nome. L'attore Pietro Sarubbi si racconta e parla del suo impegno a favore del volontariato.

Cultura 29_10_2013
Pietro Sarubbi

La finzione può sconvolgere la realtà. Potremmo descriverlo così l'inaspettato cambiamento di Pietro Sarubbi, attore teatrale e cinematografico e insegnante di Regia presso la scuola civica di Milano. Una vita spesa a recitare per passione, ma una vita spesa anche a ricercare quella esigenza di felicità e quella continua risposta ad una domanda semplicissima: cosa mi manca? Perché, come ben ci spiega attraverso le sua parole, si può avere tutto, ci può essere il lavoro, ci possono essere i soldi ma se non si riesce a capire cosa non ti rende sereno, c'è ben poco da fare.

La risposta arriva nel 2003 quando, sul set del film La passione di Cristo di Mel Gibson, Pietro – che interpreta Barabba - incrocia lo sguardo di quel Gesù così tanto umano da restarne colpito. Da lì in poi, nonostante le difficoltà e la fatica del quotidiano, è stato tutto un crescendo. Profondamente cambiato dal quel personaggio così significativo, Pietro Sarubbi si convince della necessità di dover trasmettere al mondo quanto è successo e dimostrare che quello sguardo è per tutti, basta tirar su la testa e coglierlo.

Spinto dalla voglia di approfondire il ruolo di Barabba, comincia a lavorare su un monologo che lo porta, al contrario, a metter su uno spettacolo su Pietro dove la profondità di analisi e ricerca si combina alla perfezione con quel pizzico di umorismo che non guasta mai. Complice, l'incontro e lo scambio di opinioni con lo scrittore Giampietro Pizzol che lo provoca e lo invita ad accantonare la strada di Barabba per dedicarsi a quella figura così tanto umana e al tempo stesso impacciata ed insicura che si è ritrovata a guidare la Chiesa di Gesù.

Hai lavorato con tantissimi registi, sia in teatro che al cinema, hai interpretato diversi ruoli ma possiamo dire, senza ombra di dubbio, che il Barabba interpretato nel film di Mel Gibson ha sconvolto la tua vita fino a migliorarla. Cosa è accaduto durante quel film?
È successo che mi sono trovato di fronte gli occhi di Jim Caviziel che nel film interpreta Gesù e ho capito che in quello sguardo così carico di amore si manifestava la presenza di un Altro che cercava i miei occhi. Attraverso l'interpretazione di Barabba e il confronto con questo personaggio così forte e per certi versi anche moderno, per il taglio e per l'interpretazione innovativa e inconsueta che Mel Gibson è riuscito a costruire, è accaduto qualcosa di strano ma allo stesso tempo di interessante che si è trasformata in una vera e propria provocazione e ha determinato il cambiamento che ne è conseguito.

Ti saresti mai aspettato che da un momento all’altro la tua vita sarebbe cambiata così profondamente?
No, non me lo sarei mai aspettato anche perché avevo già 42 ed ero ormai molto rinunciatario. Ero arrabbiato con il mondo e con me stesso perché le cose andavano male sotto tutti i punti di vista. Facevo tanti film, teatro, incassavo molti soldi eppure non avevo quella pace, quell’armonia che vedevo in tantissima gente e che invidiavo. Mi mancava quella serenità che avevano le altre persone. Quando arrivi ad una certa età pensi che non possa accadere nulla. Quando hai un problema, quando ti mancano i soldi o la salute è chiaro che tu ti possa continuamente lamentare. Ma quando non riesci a capire quello che ti manca, eppure sei consapevole che c'è qualcosa che non ti permette di essere sereno, provi una sorta di disagio. Sai bene che c'è qualcosa che ti potrebbe completare e che ti permetterebbe di avere l'armonia che vedi in quelle persone così semplici, ed emerge in te il desiderio di cercarla. Poi è successo questo incontro. E ritengo di essere stato molto fortunato perché è stato come rinascere. 

Adesso sei il protagonista di un intero monologo dove interpreti Pietro! So che tu, inizialmente volevi realizzare uno spettacolo su Barabba, cosa ti ha fatto cambiare idea?
Sono ormai otto anni, da quando ho interpretato il film di Mel Gibson, che mi capita di raccontare quello che mi è successo. All'inizio in maniera occasionale e poi sempre più di frequente Mi chiamavano per parlare di quanto era accaduto durante il film e dell'esperienza che avevo vissuto. C'è sempre stato un crescendo ma la mia abilità di attore, le mie testimonianze e i miei racconti avevano un taglio comico e mentre la gente rideva e si divertiva, ho cominciato a provare un certo dispiacere a parlare di una cosa così profonda, così intima e così centrale della mia vita in modo quasi superficiale. Allora ho cominciato a pensare all'ipotesi di fare uno spettacolo, un monologo su Barabba per riscoprirlo e mostrarlo in un certo modo. Quando ho contattato Giampiero Pizzol per raccontargli quello che volevo fare lui mi ha detto: “Guarda, tu non c'entri nulla con Barabba. Tu devi fare Pietro!”. Da lì in poi sono successe una serie di cose. Mi hanno regalato un libro bellissimo su San Pietro, un altro mi ha regalato un libro sulla figura del padre, così come Pietro è padre della Chiesa, un mio amico mi ha invitato a leggere i passi di Sant'Agostino sulla commozione di Pietro. Tutte queste cose sono accadute in concomitanza con la proposta che mi aveva fatto Pizzol e così ho pensato che fossero segnali che dovevo cogliere.

Ti chiami Pietro come il Pietro che interpreti nel monologo. Quali sensazioni ha suscitato in te rappresentarlo?
Tantissime perché, in realtà, per molti anni ho abbandonato questo nome per un nome d'arte. E contemporaneamente a questa mia ricerca su Pietro, c'è stato anche un riavvicinarmi a questo nome per questioni di radici e di battesimo. Mentre scoprivo tanto su quell'epoca,  sulle difficoltà di Pietro, sui suoi dubbi, sulla sua pochezza rispetto alla grandezza di quanto lo circondava, mi rendevo conto che questo appartenermi risultava trascinante. Mi permetteva di essergli molto vicino, di lavorare sulla mia voce, sul suo personaggio e su tutti gli altri. Purtroppo il teatro è in crisi, si fa molta fatica e mancano i contributi. Al contrario di tanti paesi esteri, dove ho avuto modo di lavorare, e dove i i progetti vengono finanziari in proporzione alla qualità di questi, in Italia bisogna fare i conti con i mezzi che si hanno a disposizione. Così con quattro luci e una sedia ho dato vita ad un monologo che dura poco più di un'ora e che poggia tutto sulla centralità del personaggio. 

«Con Gesù parlavi o pensavi, era la stessa cosa: sentiva tutto»: possiamo descrivere Il mio nome è Pietro come uno spettacolo che combina la profondità della riflessione a un distensivo tocco di umorismo?
Certo! Per me, questo è un punto di vista affascinante. Essere all'interno di un cammino che, al contrario di quanto tende a pensare la maggior parte della gente, è ingegnoso. Un Pietro che ha vissuto con Gesù, che è stato contaminato da un portatore della bellezza, non può che essere piacevole ma contemporaneamente profondo nel dolore di aver tradito, rinnegato, abbandonato . E questo è un aspetto che non riguarda solo lui, è una metafora del comportamento di ogni cristiano. Non basta fare un'ora di messa e credere che vada bene così. C'è una centralità, una totalità che ci deve rendere consapevoli di tutto questo anche quando si fa fatica di fronte alla bellezza dell'esperienza. È bellissimo trascorrere la domenica a tavola con Gesù e poi ritrovarsi a pescare il lunedì senza prendere nulla. La risposta a questa difficoltà è quella di vivere la giornata con lo stesso sorriso della domenica. In più, nello spettacolo, c'è una valanga di umorismo, si sorride nel guardare questo Pietro che si sente inadeguato di fronte alla chiamata e si domanda come mai Gesù non gli abbia preferito qualcuno di molto più preparato, come Giovanni o Matteo. È un uomo e come tutti gli uomini si rende conto che le cose cominciano ad andare bene proprio in quel momento in cui crediamo che tutto vada male, consapevole che l'aspetto più importante della vita non è rappresentato da come si cammina né dal viaggio ma dal punto di arrivo. Così, si ride tantissimo.

Con questo spettacolo sarai anche testimonial per la Giornata di Raccolta del Farmaco (www.bancofarmaceutico.org) che si svolgerà l’8 febbraio 2014. Da qui a gennaio sono previste una serie di date in giro per l’Italia in cui inviterai anche a diventare volontari per questa occasione.
Sì, è nata una collaborazione con il Banco Farmaceutico, dopo che alcuni di loro sono venuti a vedere lo spettacolo e sono rimasti colpiti. Mi preme sottolineare che questo è un altro aspetto molto importante. Quelli del Banco Farmaceutico si occupano di tutto, dalla comunicazione ai manifesti con l'obiettivo di utilizzare gli strumenti a nostra disposizione per favorire un cammino cristiano in cui le due cose si sposano benissimo. C'è un gran lavoro dietro, una gratuità e un volontariato che passa in silenzio senza che nessuno se ne renda conto. Mentre io sono sul palco a prendere gli applausi del pubblico, loro lavorano nel totale anonimato per trovare i farmaci necessari a rispondere al bisogno dei tanti indigenti che vivono nelle nostre città. Ecco perché ritengo che ci dovrebbe essere una maggiore attenzione nei confronti di chi fa volontariato, per questo tipo di progetti che nascono nell'ombra. Io non sono capace di fare le piccole azioni del quotidiano. Ho provato un paio di volte a fare il Banco Alimentare e per due volte la gente mi ha riconosciuto e si è convinta di essere vittima di una candid camera con il risultato di aver rovinato la raccolta. Così, uso il mio mestiere per comunicare altro e farmi testimonial.