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LETTURE PER L’ESTATE/6

L’italiano, una lingua (meravigliosa) da salvare

È la lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, di Foscolo, Manzoni e Leopardi, della poesia e del canto. È la lingua che il protagonista del “Felix Krull” di Mann definisce la più bella del mondo. Eppure, oggi in Italia la si svilisce con inutili anglicismi o addirittura la si attacca. Un motivo in più per leggere “L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua”, di Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca

Cultura 02_08_2020

L’italiano è la lingua delle “tre corone fiorentine”, di Ariosto e Tasso, di Machiavelli e Guicciardini, di Foscolo, Manzoni e Leopardi, di Verga e di Pirandello e di tanti altri grandi autori che tanto hanno influenzato la storia della letteratura occidentale. Quella che il protagonista del Felix Krull di Thomas Mann definisce come la lingua più bella al mondo è stata percepita dagli stranieri nel corso dei secoli come lingua della poesia, del canto, della musica, dell’eleganza, delle arti e della scienza. Se «la bellezza è un fatto soggettivo […] nel caso dell’italiano dobbiamo rilevare che si tratta dell’impressione soggettiva di un sacco di gente» (Annalisa Andreoni).

Ma qual è il suo futuro? Qual è il suo destino? Da queste domande parte l’interessante saggio L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua (Rizzoli) di Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca. «Le nazioni di maggiore tradizione culturale […] si difendono in maniera migliore» (Marazzini) rispetto all’Italia. Esempi chiari sono la Francia e la Spagna. Ma anche in Germania, la cui letteratura ha conosciuto la stagione d’oro ben più tardi che da noi, il cui Stato si è unificato dieci anni dopo che quello italiano, la promozione del tedesco è attuata in maniera indefessa.

Perché in Italia la difesa è blanda? Nel nostro Paese il sentimento d’identità nazionale è molto debole. «Gli Italiani sono rimasti al tempo del campanile». Si assiste ad un’«anglicizzazione stupida», ovvero all’uso dei termini inglesi non laddove sono indispensabili e insostituibili, ma in modo inutile e per questo irritante: ad esempio forme come mission, location, step, rumour, endorsement, competitor hanno la loro forma italiana del tutto adatta alla comunicazione del concetto. L’inglese non aggiunge nulla.

Marazzini non produce un attacco agli anglismi in quanto tali, non intende promuovere il purismo linguistico. Vuole, invece, difendere la grandezza di una lingua in cui gli italiani hanno una scarsa fiducia,

e spesso questi italiani privi di fiducia sono proprio quelli che hanno più responsabilità della conduzione della vita sociale. Si apre dunque un capitolo molto difficile e incerto: di fronte al tentativo di una parte dell’intellighenzia italiana di marginalizzare la lingua nazionale, estromettendola da una serie di funzioni importanti, e prima di tutto limitandone l’uso nell’Università e nella cultura.

Nel mondo universitario si sono sviluppate le «posizioni più ostili alla lingua italiana, posizioni che hanno persino portato il tema della lingua nei tribunali».

Un esempio su tutti: la vicenda che ha coinvolto il Politecnico di Milano, iniziata nel 2012 e conclusasi definitivamente solo nel gennaio 2018. Nel 2012 l’allora rettore della prestigiosa università milanese fece approvare una norma in base alla quale si aboliva completamente l’italiano nei corsi avanzati dell’università e nei corsi di dottorato. Un centinaio di professori universitari fecero ricorso contro il provvedimento del rettore. Non ne ripercorriamo tutta la vicenda. Veniamo piuttosto alla sentenza della Corte Costituzionale secondo la quale «mai e poi mai una lingua straniera può rimpiazzare e mettere in un canto la lingua italiana, una lingua il cui riconoscimento è implicito anche nell’articolo 9 della Costituzione».

Quando nel febbraio 2017 venne divulgata la sentenza della Consulta, «si scatenò sui giornali una polemica caratterizzata dalla sordità e dal disprezzo per la lingua italiana, con una determinazione quale mai si era vista prima.  Secondo coloro che protestavano contro la Corte, l’unica possibilità di sopravvivenza della scienza e della cultura nelle Università italiane era affidata all’abolizione dell’italiano».

Invece, come ricorda la studiosa Annalisa Andreoni nel bel saggio Ama l’italiano (edito da Piemme)

l’italiano è un patrimonio che merita di essere amato e valorizzato. Purtroppo […] è spesso considerato un peso infruttuoso che ostacola la corsa all’ammodernamento del Paese, anziché una ricchezza.

Il riconoscimento del valore dell’italiano è comprovato dagli impressionanti e incredibili dati relativi allo studio delle lingue straniere nel mondo. Pochi forse sapranno che la nostra lingua è la quarta più studiata nel mondo, dopo l’inglese, lo spagnolo e il cinese, prima del francese e del tedesco. Nell’anno scolastico 2015-2016 hanno studiato l’italiano 2.233.373 stranieri. Questi sono i dati forniti dall’Andreoni (che concordano con altri studi che circolano da quasi due decenni). È bene qui ricordare che altre indagini contestano questa posizione dell’italiano. Ricordiamo, ad esempio, l’articolo «La bufala dell’“italiano quarta lingua più studiata al mondo”» pubblicato sulla «Pagella politica» di venerdì 8 marzo 2019 che critica l’attendibilità delle fonti e sostiene l’impossibilità di raccogliere dati completi da tutti i Paesi e le scuole del mondo.

Qualsiasi sia la posizione dell’italiano appare chiaro che è una lingua - a differenza della maggior parte delle altre - studiata non per ragioni commerciali, storiche o politiche. Gli stranieri la studiano perché la trovano bella e permette di godere di ciò che l’Italia offre, dall’arte alla musica, dal cibo al paesaggio fino alla grandissima nostra letteratura che per secoli ha affascinato i lettori dell’Occidente. «È ora di diventare un po’ più consapevoli della nostra diversità e di quello che la cultura italiana rappresenta per il resto del mondo» (Andreoni).

Come ricordava Dostoevskij nel lontano 1877:

L’Italia porta con sé da duemila anni un’idea di grandezza, reale, organica: l’idea di una idea generale dei popoli del mondo, che fu di Roma e poi dei papi. Il popolo italiano si sente depositario di un’idea universale e chi non lo sa non lo intuisce. L’arte e la scienza italiana sono piene di quella idea grande.

La peculiarità dell’Italia risiede nella sua universalità. Del resto, già Dante nel VI Canto del Purgatorio ricorda come la nostra sia la patria sia dell’Impero che del Papato e la definisce come «il bel paese dove il sì suona», il bel giardino d’Europa. L’Italia c’è già all’epoca di Dante (1265-1321), terra in cui si parla l’italiano e la cui letteratura diviene modello e riferimento per l’Europa per secoli. È vero che lo Stato italiano nasce solo nel 1861, tardi rispetto a molti altri Stati europei, ma la consapevolezza dello spirito che contraddistingue il popolo italiano sorge molto prima che negli altri popoli, come scrive Solov’ev nel 1895:

Fra tutti i popoli europei il primo che raggiunse un’autocoscienza nazionale fu l’Italia. I creatori dell’autentica grandezza dell’Italia erano senza dubbio veri patrioti e conferivano un valore altissimo alla propria patria […]. Essi non ritenevano conforme a verità e bellezza affermare sé stessi e la propria nazionalità, ma si affermavano direttamente nel vero e nel bello. […] Le opere d’arte italiane glorificavano l’Italia perché sono pregevoli in sé stesse, pregevoli per tutti.

Erede dello spirito della classicità greco-romana, il popolo italiano è diventato sempre più creativo nell’arte, nella letteratura, nelle opere sociali e caritative all’interno di quella grande eredità cristiana a cui si è ispirato durante i secoli. La grandezza dei pittori Cimabue e Giotto, delle tre corone fiorentine, di Machiavelli, di Guicciardini, di Ariosto e di Tasso, dei pittori Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Leonardo fino ad arrivare a quel Tiepolo decoratore della residenza imperiale di Wurzburg nel Settecento o agli architetti italiani che contribuiranno in maniera considerevole alla realizzazione di san Pietroburgo, ci narra di uno splendore che ha impressionato e influenzato tutto il mondo per secoli dal Duecento fino al Settecento.

Noi conosciamo il nostro glorioso passato,

ma per avere un futuro occorre cambiare strada e abbandonare alcuni luoghi comuni a cui ci si è affezionati in anni recenti. […] La dittatura dell’inglese in sostanza mette a rischio tutti allo stesso modo. […] La globalizzazione appiattisce tutti quanti sulla base di un’utopia universalistica che poi di fatto non dà i risultati sperati, anche se continuiamo ad ascoltare la nenia sui grandi vantaggi che possono venire da ogni forma di globalizzazione (Claudio Marazzini).

Napoleone può ben rubare i capolavori d’arte italiana nel 1796. Ma, come scrive Foscolo ne I sepolcri, gli stranieri ci possono depredare di tutto, ma non della «memoria». Questa è quella che contraddistingue l’anima di un popolo, la sua tradizione, la sua cultura. Noi italiani siamo i depositari di questa memoria e dovremmo esserne orgogliosi.

Solo in questa memoria possono risiedere la creatività e la giovinezza di un popolo, come ricorda Cesare Pavese ne Il mestiere di vivere:

Quando un popolo non ha più senso vitale del suo passato si spegne. La vitalità creatrice è fatta di una riserva di passato. Si diventa creatori anche noi, quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia.