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LA STORIA

Lo strano caso del dottor Melis, abortista e cattolico

Medico abortista che si trasforma nel privato in un fervente credente. É il dottor Gian Benedetto Melis, direttore della Clinica di Ostetricia e Ginecologia di Monserrato in provincia di Cagliari, nonché professore ordinario in università. Il professore pratica aborti, una ventina a settimana, eppure si definisce cattolico. 

Vita e bioetica 20_01_2016
Il dottor Gian Benedetto Melis

Pensate al ghiaccio bollente o all’acqua asciutta. Ci siete riusciti? No? E avete ragione perché pensare al ghiaccio che scotta è una contraddizione in termini, un ossimoro. Un ossimoro vivente è il dottor Gian Benedetto Melis, direttore della Clinica di Ostetricia e Ginecologia del Policlinico di Monserrato in provincia di Cagliari nonché professore ordinario di Ginecologia e Ostetricia nella Facoltà di Medicina a Cagliari. Il prof. Melis pratica aborti, una ventina a settimana, e si definisce cattolico. Ecco allora che andiamo a raccontarvi lo strano caso del Dottor Melis e di Mister Hyde, medico abortista che si trasforma nel privato in un fervente credente.

Il quotidiano L’Unione Sarda lo ha di recente intervistato. Focus della intervista era il quinto comandamento delle Tavole della Legge: non uccidere. La giornalista Piera Serusi parte con la prima domanda: «Lei è credente, professore?». Il cattedratico risponde: «Sono credente, certo». Al che la giornalista non può che mettere in luce una certa incoerenza in questa risposta: «Un medico cattolico che pratica l’aborto. Non c’è contraddizione? ». Melis ribatte disegnando un bel cerchio perfettamente quadrato: «Nessuna contraddizione, sono due cose separate. Il problema morale riguarda la mia coscienza, la quale mi dice che devo fare tutto ciò che è possibile per salvare le donne e proteggere i loro diritti. Al contrario, mi sentirei in colpa se non facessi il mio dovere». 

Dice bene il Nostro quando ci rivela che la sua coscienza va in una direzione separata rispetto all’appartenenza alla Chiesa cattolica: per lui è un dovere uccidere bambini nel ventre della madre, per la Chiesa il dovere è quello di astenersi da tale atto omicidiario. Considerare per un medico un dovere professionale quello di praticare aborti è come sentir dire a un pompiere che il suo dovere è anche quello di appiccare gli incendi. Il medico abortista sta al vigile del fuoco piromane. Melis parla di separazione tra fede e prassi e quindi dobbiamo concludere che egli viva da separato in casa con la Chiesa cattolica. Anzi, quest’ultima lo ha buttato fuori di casa dato che, come è noto, chi pratica aborti è scomunicato. Il professore ha però il merito della chiarezza nel descrivere la sua contraddittoria posizione. Si professa credente, ma forse il suo credo non è quello del Catechismo della Chiesa cattolica che vieta di uccidere, nascituri compresi. 

Dice di essere cattolico, ma il cattolico è colui il quale crede nelle cose in cui la Chiesa propone di credere e fa di tutto per metterle in pratica. Melis allora sta al cattolico come la criptonite sta a Superman. Ed è cattolico come il Califfo al-Baghd?d? è in lista per prendere il nobel per la Pace. Un caso paradigmatico di sedicente cattolico affetto da fede schizoide. Il dottore, che tra l’altro ha divorziato e si è risposato, però è in allegra compagnia, la compagnia di alcuni sacerdoti. La giornalista così infatti lo interroga: «Il prete la assolve anche dal peccato di aborto?». «È una sua prerogativa darmi l’assoluzione», replica il medico. «E lei fa la comunione... », continua la Serusi. «Se il prete mi dà l’assoluzione, faccio la comunione», conclude il nostro. Il professor Melis è dunque un credente praticante in due accezioni tra loro confliggenti: praticante perché va a Messa la domenica e praticante perché pratica aborti. 

Al di là di questo, Melis sa benissimo, dato che è cattolico, che affinché la confessione sia valida e non sacrilega occorre la presenza di due condizioni che il penitente deve soddisfare entrambe. Il dolore per il peccato commesso e il serio proponimento di non peccare più. Nel caso di Melis si danno due ipotesi. O il pentimento e il proposito di non praticare più aborti durano l’arco di una sola domenica e poi scompaiono al sorgere del lunedì lavorativo oppure non c’è vero pentimento né reale desiderio di emenda. Mancando queste due condizioni il sacerdote non potrebbe assolverlo, anzi, dato che il dottore si è macchiato del peccato gravissimo di aborto, dovrebbe rimandarlo all’ordinario del luogo, eccezion fatta per questo tempo giubilare. E quindi il dottor Melis in un sol colpo compie una confessione sacrilega e una comunione altrettanto sacrilega (non male per un cattolico). Così almeno insegna quella Chiesa cattolica a cui il professore cagliaritano dice di appartenere. 

Il ginecologo, poi, più che ai fatti biologici e agli insegnamenti del Magistero ama guardare alle leggi civili: «Io credo che la vita incominci al momento della nascita, ma non sto a discutere se è vita quella dell’embrione e quella dei gameti vicini nelle tube. […] A me, come medico, preme osservare rigorosamente una legge dello Stato che stabilisce i termini di intervento». Il rullo compressore per spianare le grinze della coscienza è nella prona aderenza alle norme di diritto positivo. Insomma, da bravo cattolico adulto, prima le leggi dello Stato poi quelle di Dio a pari merito e in ultima posizione con quelle di natura che ci dicono che lo zigote è già un essere umano. Un’osservanza della lettera della legge davvero scrupolosa. 

Infatti, quando il dottore viene stimolato a parlare del cosiddetto aborto terapeutico, cioè quello che avviene dopo il 90° giorno di gestazione, ricordando che, secondo quanto dispone la 194, se il feto è viabile – cioè può sopravvivere autonomamente – il medico deve far di tutto per tenere in vita il piccolo, Melis spiega che «spesso il bambino non ha battito cardiaco, ma può accadere che invece il battito ci sia e a quel punto abbiamo il dovere di fare assistenza». Guai a rianimare un bambino senza battito, l’art. 7 non lo prevede espressamente. Ma la legge di Dio, caro fratello cattolico, all’art. 5 del Decalogo invece non solo lo prevede, ma lo impone.