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IL CASO TRA ITALIA E ARGENTINA

Lucia e l'aborto a 11 anni: si tace sulla vita e la salute

In Italia l'eco del caso di Lucia, minore argentina incinta dopo uno stupro a 11 anni e "costretta" a un cesareo di una bambina prematura, poi morta. «Non l'hanno fatta abortire», è il ritornello della campagna #niñasnomadres per la legge sull'aborto. Ma le cose non stanno così: cesareo e aborto sarebbero stati un rischio enorme anche per la salute della minore. 
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Vita e bioetica 13_03_2019
Una delle foto postate nella campagna #ninasnomadres

La battaglia per la legalizzazione dell'aborto in Argentina si riaccende e travalica l'oceano arrivando anche in Italia dove si sta seguendo con particolare emotività la storia estrema di Lucia (nome di fantasia). Lucia è una bambina che a 11 anni è stata costretta a un parto cesareo dopo che l'ospedale si era rifiutato di farla abortire. La sua drammatica storia è stata presa ora a modello per una campagna rimbalzata anche in Italia per sensiblizzare l'opinione pubblica internazionale sulla necessità di abbattere anche la legislazione argentina che vieta l'aborto. Ma come sono andate le cose e quali sono i motivi per cui i medici che l'avevano in cura hanno deciso di non farla abortire? E nemmeno di farle quel parto cesareo che poi due medici attivsiti pro aborto hanno poi effettuato? Ecco una ricostruzione che ci arriva dall'Argentina e che non si accontenta delle spiegazioni di facciata del pensiero dominante. 

Un articolo firmato da Annalisa Grandi sul Corriere della Sera il 2 marzo scorso (e poi da altri giornali) aveva riportato il caso di una bambina argentina che vive nella provincia di Tucuman (nel nord-ovest dell’Argentina) rimasta incinta a 11 anni dopo essere stata violentata dal “compagno della nonna” alla quale sarebbe stato impedito di abortire e che sarebbe stata obbligata a partorire. Grandi affermava che una volta che la bambina aveva di essere incinta “aveva tentato il suicidio due volte” e pertanto aveva chiesto di abortire. Anche sua madre aveva fatto la stessa richiesta. Grandi ha fatto notare anche l’azione delle associazioni femministe a favore dell’aborto e di Amnesty International che, davanti al rifiuto di realizzare l’aborto, hanno parlato di una “violazione dei diritti umani”. Inoltre, si è riferita ai “meandri della burocrazia provinciale” di Tucuman, a causa della quale “Lucia avrebbe dovuto sottoporsi all’intervento all’Eva Peron Hospital, a Buenos Aires”. A parte l’errore geografico, trattandosi di San Miguel de Tucuman, la capitale provinciale, l’intervento a cui si fa riferimento è stato “un cesareo d’urgenza”. 

“Abbiamo salvato la vita di una ragazza che era stata torturata due volte”, ha detto Cecilia Ousset, il medico che è intervenuto per il cesareo d’urgenza. “Quando ho visto quella bambina, mi tremavano le gambe, mi sembrava di vedere mia figlia. Non aveva idea di che cosa stesse per succedere”.

L’ultima informazione che bisogna aggiungere è che Faustina, la bimba di questa bambina tucumana, è morta l’8 di marzo, convenzionalmente il giorno internazionale della donna.

Grandi è tornata a occuparsi dell’argomento ieri, raccontando della vasta campagna sotto l’hashtag #NiñasNoMadres (#bambine non madri) promossa da personaggi del mondo dello spettacolo e non solo. Immagini di bambini sorridenti. Avrebbe dovuto scrivere dei personaggi dello spettacolo, e non solo, che sono al servizio della lobby internazionale abortista in Argentina. 

Riferimenti che fanno tremare le gambe, ricordo delle proprie figlie, foto delle attrici quando avevano 11 anni e abbozzavano un sorriso. Un tocco narrativo posto al servizio di una impostura, come si vedrà immediatamente. 

È significativo che su un fatto tanto grave si lascino parlare soltanto le voci pro aborto: per il “cesareo d’urgenza”, il medico Cecilia Ousset ha potuto contare sull’aiuto di Josè Gigena, medico come lei e suo marito. Il dato che Grandi non riporta è che entrambi sono a favore della legalizzazione dell’aborto. Ousset è autrice di una lettera pubblicata sul suo profilo Facebook e diffusa da vari giornali nella quale, dopo aver riferito della sua esperienza nella realizzazione di raschiamenti in cliniche pubbliche e di aver lavorato anche in quelle private, conclude: “Per tutto questo, per diciotto anni di pratica ginecologica, come donna, come cattolica e per lavorare costantemente nella mia coscienza per raggiungere la coerenza e abbandonare nella misura maggiore possibile l’ipocrisia, dico: “Voglio l’aborto legale, sicuro e gratuito per tutte le donne che si trovano in una situazione disperata e personale”. 

La posizione delle associazioni come Avvocati e Avvocate del nord ovest argentino sui diritti umani e studi sociali, del Comitato dell’America Latina e dei Caraibi per la difesa dei diritti della donna (Cladem) e di Amnesty International sulla legalizzazione dell’aborto è fin troppo conosciuta. 

Tuttavia, dalla lettura della notizia si dovrebbe realizzare che in Argentina l’accesso all’aborto sia un diritto. In realtà nell’ordinamento giuridico argentino, l’aborto è un delitto. Nonostante le eccezioni che contempla l’articolo 86 del codice penale argentino in funzione della penalizzazione, in nessuno dei casi si tratta di un diritto. In Argentina non esiste un diritto all’omicidio. Pertanto, nemmeno all’aborto. Se, da sempre il diritto al rispetto della vita umana è stato protetto in Argentina, tuttavia lo è stato ancora di più a partire dalla riforma della Costituzione Nazionale del 1994.

Lo Stato argentino riconosce la vita umana fin dal concepimento. Quando l’Argentina approvò nel 1990 la convenzione sui diritti del bambino mediante la legge 23.849, rispetto all’articolo 1° (“Per gli effetti della presente convenzione si intende per bambini ogni essere umano minore di 18 anni di età”) segnalò che “la Repubblica Argentina dichiara che lo stesso deve essere interpretato nel senso che si intende 'bambino' ogni essere umano dal concepimento fino ai 18 anni di età”. Anche l’Argentina, non bisogna dimenticarlo, deve garantire “l’interesse superiore del bambino”, conformemente all’articolo 3.1 della stessa Convenzione. 

Qualcuno potrà chiedersi perché, se l’articolo 86 del codice penale argentino non condanna l’aborto in alcuni casi ( 1° se è stato fatto con l’obbiettivo di evitare un pericolo per la vita o la salute della madre e se questo pericolo non può essere evitato con altri mezzi; 2° se la gravidanza proviene da uno stupro o da un attentato commesso su una donna incapace) i medici non abbiano proceduto a praticarlo. Al di là delle questioni vincolate dal diritto argentino esiste un altro motivo: come ha rivelato il giornalista argentino Mariano Obarrio “12 giorni dopo l’arrivo della bambina incinta di 22,4 settimane, i medici dell’ospedale Eva Peron di Tucuman sconsigliarono l’aborto e il cesareo perché avrebbe potuto procurare gravi rischi per la salute della minore incinta, l’asportazione dell’utero e persino la morte derivata dall’aborto. Ma c’è di più: in un documento firmato da tutti, i medici determinarono che il prolungamento della gravidanza con le cure quotidiane adeguate non avrebbe rappresentato un rischio maggiore rispetto a quello di un qualunque paziente normale”. 

Si noti che non soltanto sconsigliarono l’aborto, ma anche il cesareo. “Il medico abortista Cecilia Ousset, che ha realizzato l’imprudente cesareo con suo marito Josè Gigena il 26 febbraio ha detto successivamente di averlo praticato d’urgenza perché, diversamente, la bambina sarebbe morta. I medici l’hanno contraddetta con prove scientifiche e mediche. E soltanto ora esce allo scoperto il documento che sicuramente sarà determinante nel corso del procedimento giudiziario nel quale i medici sono stati denunciati penalmente per aver cercato di prendersi cura di due vite umane”, afferra Obarrio. “I medici che l'avevano in cura - segnala il giornalista - hanno firmato la lettera di rigetto dell’aborto il 26 febbraio: «La pratica di un cesareo su una minore di 11 anni pone in grave rischio la sua integrità fisica e psichica, con un’alta probabilità di provocare danni irreversibili potendo addirittura provocare la sua morte». Come si può vedere nella foto l'hanno firmata di loro pugno decine di professionisti sotto la loro responsabilità”. 

“In sostanza, i medici dell’ospedale che si sono rifiutati di praticare l’aborto e il cesareo, non hanno messo in pericolo la vita e nemmeno i diritti della minore, ma hanno solamente provato a salvare 2 vite, hanno vigilato per la salute e per la vita dell’adolescente di 11 anni incinta dopo uno stupro del quale l’unico responsabile, secondo quanto detto da lei in una stanza protetta, è suo “nonno” Victor Eliseo Amaya di 65 che è detenuto con carcerazione preventiva su mandato della procura specializzata in questi delitti. E non dovrà mai più uscire dalla sua cella”, conclude Obarrio. 

Effettivamente lo Stato deve farsi carico dell’applicazione del codice penale secondo i tempi e la forma, implementare le misure più adatte per prevenire delitti come lo stupro e per porre al servizio delle due vite il meglio del sistema sanitario. 

*traduzione di Andrea Zambrano