Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Giovedì Santo a cura di Ermes Dovico
CULTURA

Manzoni. La fede è un fatto

Nei Promessi sposi, con la conversione dell’Innominato Alessandro Manzoni racconta il cammino della fede, suo e di ogni uomo. E conferma che ciascuno ha bisogno di incontri, di fatti, di testimonianze umane che gli rendano visibile il volto di Dio, che è «veramente grande» e «veramente buono».

Cultura 06_01_2013
Guardassoni_Conversione Innominato

La fede nasce da un incontro, attraverso la testimonianza di un uomo che con tutta la sua umanità, pur imperfetta, rende visibile l’eccezionalità di Cristo, unica risposta all’umana domanda di pienezza e di felicità. Per questo la fede è il riconoscimento di un fatto già presente.

La vita stessa di Manzoni è la dimostrazione di questo. Dopo aver studiato dai Padri Barnabiti e Somaschi, Manzoni si forma una cultura illuministica moderna, all’insegna dei filosofi e letterati francesi, e si allontana sempre più dalla chiesa cattolica e dalla fede. L’incontro prima con Enrichetta Blondel, che sposerà sia civilmente che con rito calvinista l’8 febbraio del 1808, e poi con il padre spirituale Eustachio Degola lo porterà ad un cammino di fede e alla conversione al cattolicesimo, di cui la celebrazione del matrimonio per la seconda volta, ora con rito cattolico, il 15 febbraio del 1810, potrebbe già essere un chiaro segno. Manzoni sarà sempre refrattario a parlare della sua conversione. L’aneddotica riduce questo cammino lungo, durato qualche anno, al celebre episodio accaduto nella chiesa di San Rocco a Parigi. Durante il matrimonio di Napoleone (2 aprile del 1810) la moglie sviene, Manzoni si perde e in una crisi di agorafobia si rifugia in chiesa a pregare. Ne esce convertito e ritrova la moglie.

Ermes Visconti, uno degli amici più intimi di Manzoni, comprende che il cammino di fede di Alessandro è adombrato nella vicenda centrale dei Promessi sposi, la conversione dell’Innominato. Nel ventunesimo capitolo Lucia, di fronte al più grande dei cattivi, ha un’autorità che non proviene da Lei. «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia». Questa frase, proferita con un filo di voce all’Innominato, lo cambia. La giovane paesana vive questa circostanza avendo negli occhi la presenza di Gesù, che è la presenza del volto della madre Agnese, di Renzo, di fra Cristoforo, della Madonna che lei invoca. E dai quei volti passa la Provvidenza. Infatti Lucia è la più debole, ma vince l’Innominato. Questi, infatti, dopo una nottata turbata dal pensiero del suicidio, deciderà di seguire le voci che provengono da un vicino pellegrinaggio verso il cardinal Federigo. Qui l’Innominato sarà abbracciato in tutta la sua cattiveria e i suoi limiti. E capisce che la liberazione di Lucia è la prima possibilità del suo personale cambiamento.

È così che si muove la Provvidenza. Nel caso dell’Innominato, le sue riflessioni non smorzano la disperazione, anzi la acuiscono. Finché non gli torna in mente un volto, quello di Lucia, della carcerata incontrata quel medesimo giorno e che ha pronunciato una frase che, ora, sola sembra dare un po’ di refrigerio all’arsura del suo deserto, o, forse meglio, già Inferno in terra: «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia». Quelle parole sembrano emesse non già con una voce flebile, timida e impaurita, ma con un’autorevolezza di chi «dispensa grazie e consolazione», l’autorevolezza di chi ha qualcosa da dire alla nostra vita e ci può dare una via di salvezza. Il suo pensiero va all’incarcerata che lui, senza motivo, sta facendo soffrire e lei gli appare come una liberatrice. Intanto in quella notte gli istanti passano come se fossero ore interminabili, che gravano sulla fatica dell’esistenza, fintanto che non sopraggiunge l’alba e con quella anche voci confuse di gioia, che annunciano un senso di allegria comune. Preso da un sentimento misto di invidia (per un’allegria che scorge dagli accenti e dal volto altrui, ben lungi dalla cupa disperazione che si è impadronita di lui) e di speranza  che qualche parola di conforto possa esserci anche per lui, l’Innominato invia qualche bravo ad informarsi sulle ragioni di quel «pellegrinaggio» concorde e lieto.

L’Innominato si affaccia alla finestra  per guardare, come attratto da una letizia inusuale e che non sembrerebbe appartenere a questo mondo, da un’allegra baldanza che non risponde ai criteri puramente umani. Guarda e gli cresce «in cuore una più che curiosità di saper cosa mai» possa «comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa». Si va dietro, quando si è autentici, veri con se stessi, ad una letizia che ci colpisce e a noi sconosciuta per vedere dove stia di casa, dove  abiti, come i primi due apostoli, incontrato Gesù, gli chiedono: «Maestro, dove abiti?». Così, anche il ribaldo segue quel popolo in cammino, concorde e lieto, che tanto ricorda la comunione delle anime nella salita delle balze del Purgatorio dantesco.

Giunge, in tal modo, al paese e alla casa dove è ospitato il cardinale Federigo. E qui avviene l’incontro, insperato, imprevisto, gratuito. «Appena introdotto l’Innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona  desiderata». Tra i due grandi, posti l’uno di fronte all’altro, domina all’inizio un silenzio foriero di attenzione e rispetto che prelude ad un colloquio di sguardi.
L’Innominato si sente straziato da due sentimenti opposti: la speranza «di trovare un refrigerio al tormento interno» e la vergogna di «venir lì come un miserabile, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo». L’uomo vecchio (dominato dall’orgoglio, dalla presunzione, dall’istinto a prevaricare sugli altri) è duro a morire. È come se ci fosse una lotta tra l’uomo nuovo insorgente e l’uomo vecchio. Così, invece, appare al lettore il Cardinale, la cui presenza è di quelle «che annunziano una superiorità e la fanno amare: … tutte le forme del volto indicavano che in altre età, c’era stata quella che più propriamente si chiama bellezza».

È lui che inizia a parlare, dopo un lungo intervallo di silenzio, manifestando la propria gioia per quella visita imprevista e, nel contempo, proclamando il proprio rimorso per non essersi mosso lui prima alla ricerca di quella pecorella smarrita e destando, così, lo stupore dell’interlocutore che si chiede se il Cardinale abbia davvero capito la sua identità.  L’uomo di fede allora pronuncia parole che rispondono anticipatamente alle domande dell’Innominato. «Dio sa fare Egli solo maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza dei suoi poveri servi…». E ancora: «Voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?». Il Cardinale sa leggere il cuore dell’interlocutore meglio di quanto sappia fare quegli e così gli spiega che la novità è che Dio gli ha toccato il cuore. A quel nome l’Innominato sobbalza come quando Lucia l’ha pronunciato, ma questa volta, invece che all’imprecazione, le sue parole sono mosse al tono della preghiera e del desiderio dell’epifania: «Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?».

Allora il Cardinale incalza: «Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?». L’Innominato allora si chiede che cosa Dio possa volere da lui, che cosa ne possa ricavare. Prontamente il sant’uomo risponde che Dio può ricavare dalla conversione di quell’uomo una gloria che nessun altro Gli potrebbe dare: il cambiamento del cuore dell’uomo, la conversione, è il più grande miracolo che esista in terra; la salvezza di un uomo che fino ad allora ha operato solo per sé è segno della misericordia, della grandezza e della bontà dell’Onnipotente.

Se l’Innominato ha compiuto cose grandi nel male, ancor più Dio può far a lui operare azioni ben più gloriose nel bene. Il Cardinale è grato al Signore per avere assistito ad un tal segno ed esclamando «Dio grande e buono!» stende la mano verso quella dell’interlocutore che, in un primo tempo, rifiuta, preso com’è dal proprio male e dal proprio essere indegno. Ma l’Innominato è proprio come la pecorella smarrita di evangelica memoria, che il buon pastore vuole ricondurre all’ovile, mentre le altre novantanove sono al sicuro. Abbracciato dal Cardinale, ricambia l’abbraccio affettuoso; la sua ritrosia è vinta dall’ardore della carità. Esclama così: «Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure…! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!».

Solo nell’incontro con qualcuno che ci abbraccia così come siamo, possiamo anche noi abbracciarci e così conoscerci, solo nell’incontro con Dio, padre amoroso, incominciamo a capirci. È esperienza per noi di tutti i giorni: solo in un affetto si conosce veramente! Solo nell’incontro con Cristo l’uomo prende reale consapevolezza della natura del proprio cuore che riprende a vivere di nuova vita, quella che è la sua, naturale, risvegliata in tutta la portata delle esigenze di felicità, di giustizia, di amore, di bene. Nell’incontro con Cristo è ridestato e, per così dire, potenziato il senso religioso dell’uomo.