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ISTAT

Nascite in Italia, un altro record negativo

Nel 2016 sono nati in Italia 474mila bambini, 12mila in meno dell'anno precedente. Con l'aumento della speranza di vita e quindi degli ultra65enni, assistiamo a un rapido invecchiamento della popolazione. C'è bisogno urgente di invertire la tendenza, ma i governi che si succedono vanno in tutt'altra direzione. E ora è già pronta la scorciatoia per riequilibrare (almeno un po') la struttura della popolazione.

Cronaca 07_03_2017
Culle vuote

Era già tutto previsto, cantava Riccardo Cocciante 40 anni fa. Non si riferiva ovviamente al crollo dei tassi di fecondità, eppure è proprio all’inizio degli anni ’70 (guarda caso con l’introduzione della legge sul divorzio) che inizia il calo delle nascite in Italia che dura tuttora. Nessuna sorpresa dunque se negli indicatori demografici presentati il 6 marzo dall’Istat si registra un altro record negativo di nascite: 474mila nel 2016, 12mila in meno del 2015, che segnava ovviamente il record precedente. Anche se il tasso di fecondità scende di pochissimo (1,34 figli per donna contro gli 1,35 dell’anno precedente), le nascite diminuiscono considerevolmente perché per effetto del calo degli anni precedenti si restringe sempre più la fascia di donne in età fertile. 

E il futuro si presenta sempre più grigio. Il saldo naturale (nascite meno decessi) è fortemente negativo (-134mila nel 2016) e diminuisce anche la quota dei nuovi nati da donne straniere (19,4%), anche se queste mantengono tassi di fecondità più alti delle donne italiane (1,95 contro 1,27).

All’altro estremo c’è il dato positivo di un ulteriore aumento dell’aspettativa di vita: 80,6 anni per gli uomini e 85,1 per le donne. Addirittura abbiamo un boom di ultranovantenni, 727mila (1,2% della popolazione), che appena 15 anni fa erano 402mila (0,7%). Numero record anche degli ultracentenari che arrivano ormai a 17mila. Più in generale gli ultra65enni sono oltre 13,5 milioni, il 22,3% della popolazione contro gli 11,7 milioni di dieci anni fa (20,1%).

Ma i due dati combinati danno il risultato di un paese sempre più vecchio, con un’età media di 44,9 anni, avviato irrimediabilmente al declino anche perché non ci sono segnali di inversione di tendenza. «Sono dati che confermano quello che è in atto già da molto tempo – ci dice il demografo Giancarlo Blangiardo, docente all’Università di Milano Bicocca -. Sono problematiche denunciate già trenta anni fa, ma tutti se ne infischiano». 

Se ne infischiano e si parla di altro, come se la crisi economica che dura ormai da molti anni non fosse figlia della denatalità e del conseguente invecchiamento della popolazione. Non a caso mentre si assottiglia sempre più il numero dei giovani, cresce di pari passo la disoccupazione giovanile; alla faccia di chi da anni predica il controllo delle nascite per diminuire la popolazione così da avere più risorse a disposizione. Non è così, la realtà ce lo dimostra ogni giorno, la denatalità produce stagnazione economica. 

Il tragico è che mentre qualche politico comincia a rendersi conto della gravità della situazione demografica, allo stesso tempo non si ha alcuna intenzione di prendersi la responsabilità di scelte politiche che invertano la tendenza. Così si prospettano soluzioni che alla prova dei fatti si riveleranno ancora più rovinose. Principale fra queste ricette è l’immigrazione.

Recentemente si è fatta paladina di questa battaglia la leader radicale Emma Bonino che, dopo aver fatto tanto nei decenni passati per promuovere la denatalità, oggi propone l’ingresso massiccio di manodopera straniera per tappare i buchi creati dalla mancanza di giovani italiani. Chi propugna tale soluzione tradisce una concezione economicista dell’uomo, ridotto a semplici funzioni produttive e quindi interscambiabile: mancano dieci italiani, li rimpiazzo con dieci stranieri. Ma la realtà non funziona così: chi immigra – pur tralasciando le problematiche culturali e religiose, che pure sono importantissime – ha anche bisogno di una serie di servizi che ne permettano l’integrazione (case, sanità, apprendimento della lingua, e così via); inoltre spesso ciò che guadagna qui va in gran parte al paese d’origine per sostenere i familiari rimasti a casa. E ancora, gli stessi dati dell’Istat ci fanno vedere che la componente straniera fra i nuovi nati diminuisce, e lo stesso tasso di fecondità – per quanto sia ancora significativamente più alto – tende ad omologarsi a quello della popolazione italiana.

Il vero problema è che in Italia non si vuole sentir parlare di natalità. Basta ricordare le reazioni inconsulte pochi mesi fa all’iniziativa di un Fertility Day voluto dal ministro della Santità Beatrice Lorenzin. Era proprio una piccola cosa, ma è bastato ricordare che esiste un orologio biologico che sconsiglia di aspettare troppo per avere un figlio, per scatenare il finimondo. E l’iniziativa è completamente naufragata. Del resto governo e parlamento fanno di tutto per promuovere politiche che, si sa, scoraggiano le nascite: come non ricordare che basterebbe far venire al mondo i bambini abortiti (circa 100mila solo con l’aborto chirurgico) per rimettere in sesto i conti delle nascite. E come incide negativamente la promozione dell’omosessualità e la distruzione sistematica della famiglia sui tassi di fecondità.

«Allo scopo di invertire la tendenza nei tassi di fecondità – dice il professor Blangiardo – sono assolutamente inutili anche le misure di contrasto alla povertà, bonus e quant’altro. Per promuovere le nascite si deve soprattutto intervenire a sostegno del ceto medio, sono le classi medie quelle decisive per la fecondità. Ovviamente gli investimenti hanno un costo ma qui si gioca il futuro dell’Italia». Ma quale potrebbe essere una misura a favore del ceto medio? «Anzitutto il quoziente familiare», spiega il professor Blangiardo, ovvero una politica fiscale che imponga le tasse tenendo conto della numerosità del nucleo familiare: «Il modello francese funziona, in Italia manca la volontà politica».

Un problema è che, non volendo intervenire sulla fecondità e sulle nascite, si tende di conseguenza a spostare lo sguardo sull’altro versante demografico, quello della mortalità. Si fa sempre più ristretta la base produttiva da tassare al fine di pagare i crescenti costi sanitari e sociali per la popolazione anziana. È sotto questa luce che va considerata la campagna in corso per introdurre l’eutanasia: l’autodeterminazione delle singole persone, la libertà di scegliere, il diritto a una morte dignitosa sono tutti paraventi per nascondere la realtà di uno Stato che deciderà lui a chi e quando dare la morte.