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IL CASO

Non strumentalizziamo la Pentecoste

Anche quest’anno alla Festività della Pentecoste, celebrata domenica scorsa, si è assistito ad una sua interpretazione politica.

Dottrina sociale 11_06_2019

Anche quest’anno alla Festività della Pentecoste, celebrata domenica scorsa, si è assistito ad una sua interpretazione politica. Quando Johann Baptist Metz sosteneva, agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, la necessità di una “teologia politica”, secondo lui l’unica comprensibile dal cristiano della “Città secolare” di Harvey Fox, forse non pensava che il suo discorso arrivasse così lontano fino ai giorni nostri e che trovasse un così ampio ed implicito consenso.

Il racconto della Pentecoste, scritto da Luca negli Atti degli Apostoli, e che è risuonato in tutte le chiese domenica scorsa, è stato ampiamente spiegato nelle omelie come il superamento delle chiusure dentro i confini dei popoli e delle nazioni, in quanto lo Spirito ci rende cittadini di una nuova “nazione”, la Chiesa, a carattere universale. Ora, questo è vero, ma non significa portare acqua alle ragioni dell’attuale globalismo politicamente inteso. Luca non conosceva l’ONU e nemmeno la società aperta di Soros e, in ogni caso, il suo discorso si colloca su un altro piano. Si tratta del piano soprannaturale e della Grazia, la Chiesa è il popolo della Nuova Creazione, della Creazione rinnovata sulla Croce, nella Resurrezione e nell’invio del Paraclito. Si tratta del piano teologale della fede, della speranza e della carità, virtù teologali perché hanno Dio come fonte e consistono nella partecipazione alla Sua vita divina. Non hanno niente a che fare con l’ONU o le migrazioni di massa. Non chiedono nessuna politica di apertura indiscriminata dei porti, nessuna rinuncia ai doveri dei governi di tenere in conto anche il bene dei propri cittadini mentre ne accolgono altri, e non richiedono di rinunciare al controllo dei confini. Metz sosteneva che questi discorsi “metafisici” non sono più comprensibili all’uomo secolarizzato. Ma chi dice che Metz avesse ragione e che fosse ineludibile tradurre il cristianesimo in linguaggio politico?

L’unità del genere umano suscitata dallo Spirito e di cui la Chiesa è segno e strumento ha un significato teologale e salvifico e non politico. Non richiede che si dia un governo mondiale, né che i confini vengano sbaraccati, né che sia venuto meno il dovere verso la patria e i propri connazionali. Non toglie che il primo dovere sia verso chi ci sta vicino. Non invita a costruire ponti senza criterio e a condannare a priori ogni muro protettivo delle identità culturali e di civiltà. Non se ne deduce che l’attenzione al bene comune della patria – salvo gli eccessi nazionalistici esasperati - sia accusato di egoismo. La Pentecoste non ci dice di aderire necessariamente all’Unione Europea o di approvare ed elogiare le politiche delle Nazioni Unite. Anzi, siccome la soprannatura non elimina la natura ma semmai la perfeziona, essendo che il popolo, la nazione e la patria sono elementi naturali, l’unità del genere umano non li può eliminare ma semmai si costruisce su di sessi, valorizzandoli ed ampliandone il significato.

Ampliandone il significato: questo è un altro punto su cui la strumentalizzazione politica delle festività della Pentecoste si incaglia. Nel racconto degli Atti degli Apostoli, Luca fa un lungo elenco di popoli presenti. Essi parlavano in molte lingue ma udirono l’unica lingua dello Spirito e la compresero. Allora, se da un lato, come ho detto sopra, lo Spirito non annulla i popoli, le nazioni e le patrie, dall’altro non li lascia nemmeno dentro i loro involucri, approvandoli tutti e, quindi, rendendoli anche tutti uguali. L’ordine naturale - che fa sì che una persona sia dentro un popolo, una nazione e una patria - viene rispettato dallo Spirito, che semmai agisce dall’interno di queste realtà e non sovrapponendosi ad esse, perché la soprannatura non nega la natura. Nello stesso tempo, però, le purifica dalle loro chiusure e inadeguatezze, non le convalida a scatola chiusa, le giudica, ne denuncia i difetti e le distorsioni della verità e, così facendo, le purifica.

Se osserviamo una qualunque delle “Feste dei Popoli” che in questo periodo di Pentecoste si tengono nelle nostre parrocchie e diocesi, ci rendiamo conto che ondeggiano tra i due estremi: negazione del valore delle culture nazionali in virtù di un astratto globalismo cosmopolita e universalistico, oppure accondiscendenza verso ogni cultura nazionale, considerate tutte come ugualmente valide. Ma la Pentecoste né ha abolito le nazioni per costruire una specie di ONU sincretista delle religioni e delle culture (la società multiculturale per cui molti lavorano non ha niente a che fare con la Pentecoste), né ha fatto di esse una gamma di varianti da apprezzare così come sono.