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CHIESA

Obama "inchiodato" da papa Francesco

E' durato 50 minuti l'incontro tra papa Francesco e il presidente americano Barack Obama. Nel comunicato finale della Santa Sede, si parla di crisi internazionali e dei problemi che la Chiesa americana ha con l'amministrazione Obama: libertà religiosa, aborto, obiezione di coscienza.

Ecclesia 27_03_2014
Il Papa e Obama

(Aggiornato alle 15.00): 
Papa Francesco ha ricevuto stamani in Vaticano il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Si tratta del primo incontra tra i due. Obama era stato ricevuto da Benedetto XVI in Vaticano nel luglio 2009. “Welcome”, “Benvenuto”. Papa Francesco ha accolto con la semplicità che lo contraddistingue Barack Obama che, dal canto suo, ha risposto: “Grazie. E’ meraviglioso incontrarla”. Poi il momento del colloquio privato tra i due, presenti solo gli interpreti. La conversazione è durata circa 50 minuti. Quindi, si è svolta la cerimonia dello scambio dei doni e la presentazione al Pontefice dei membri delegazione americana alla qu. Il presidente degli Stati Uniti era giunto in Vaticano intorno alle 10.15, accompagnato da un lungo corteo di autovetture. Ad accogliere il capo della Casa Bianca - al Cortile di San Damaso - è stato mons. Gaenswein, prefetto della Casa pontificia. 
Ecco il comunicato ufficiale della Santa Sede, diffuso nel primo pomeriggio:

Stamani, giovedì 27 marzo 2014, S.E. il Sig. Barack H. Obama, Presidente degli Stati Uniti d’America, è stato ricevuto in Udienza dal Santo Padre Francesco e, successivamente, si è incontrato con Sua Eminenza il Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato, accompagnato da S.E. Mons. Dominique Mamberti, Segretario per i Rapporti con gli Stati.

I cordiali colloqui hanno permesso uno scambio di vedute su alcuni temi attinenti all’attualità internazionale, auspicando per le aree di conflitto il rispetto del diritto umanitario e del diritto internazionale e una soluzione negoziale tra le parti coinvolte.

 

Nel contesto delle relazioni bilaterali e della collaborazione tra la Chiesa e lo Stato ci si è soffermati su questioni di speciale rilevanza per la Chiesa nel Paese, come l’esercizio dei diritti alla libertà religiosa, alla vita e all’obiezione di coscienza nonché il tema della riforma migratoria. Infine, è stato espresso il comune impegno nello sradicamento della tratta degli esseri umani nel mondo.


Il consueto comunicato della Santa Sede diffuso al termine dell’udienza tra il Papa e Barack Obama probabilmente metterà oggi in rilievo il “clima cordiale”.  Eppure, sono molti gli argomenti in agenda a far immaginare un incontro tra i due giocato non sul velluto. Sia in Vaticano che a Washington non hanno ancora dimenticato le tensioni dell’estate scorsa, quando Francesco si oppose pubblicamente e con fermezza allo strike su Damasco che allora sembrava imminente. Digiuno, veglia di preghiera, adunata silenziosa in piazza San Pietro per scongiurare il conflitto che vedeva tra i suoi più convinti sostenitori proprio il presidente degli Stati Uniti. Non contribuì ad allentare la tensione, poi, la lunga lettera accompagnata da benedizione finale che il Papa inviò a Vladimir Putin, in quelle settimane presidente del G20 riunito in Russia. Una diversità di vedute che è emersa anche in riferimento alla più recente crisi ucraina, dove la Santa Sede ha scelto un basso profilo, assumendo così atteggiamento opposto a quello adottato in riferimento al caso siriano. 

Ma è il capitolo dei rapporti tra Obama e la Chiesa americana a rappresentare con ogni probabilità uno degli scogli più ardui da superare. In questi mesi, la Casa Bianca ha tentato di allentare la tensione con il combattivo episcopato statunitense cavalcando l’elezione di Francesco al Soglio pontificio. Dalle parti di Pennsylvania Avenue si apprezzava la maggiore attenzione del Pontefice argentino ai temi legati alla giustizia sociale, piuttosto che il continuo porre l’accento sui cosiddetti princìpi non negoziabili così cari ai suoi immediati predecessori.

Obama, poi, ricordava ancora bene l’udienza in Vaticano del 2009, quando Benedetto XVI gli regalò una copia della Dignitas Personae, l’istruzione della Congregazione per la Dottrina della fede del 2008 sulla bioetica. Nei mesi scorsi, il presidente americano ha chiesto ai curatori dei propri discorsi di citare ove possibile vari passaggi dei testi pronunciati da Francesco sulla povertà e sulle altre questioni sociali. E’ accaduto anche lo scorso dicembre, quando in un discorso di Obama è comparsa la frase “come può essere che non faccia notizia quando muore di freddo una persona anziana senzatetto ma faccia notizia la borsa che perde due punti?”, contenuta nell’Evangelii Gaudium, la prima esortazione apostolica di Bergoglio. 

Il tentativo della presidenza americana di trascinare su questo campo il confronto con la Santa Sede è palese, e non è un caso che domenica scorsa sul New York Times – quotidiano liberal per eccellenza della East Coast – sia comparso un lungo articolo di Jason Horowitz sulle radici cattoliche dell’attivismo di Obama. Anche qui si sottolineava con dovizia di particolari come fosse la lotta per la giustizia sociale ad aver avvicinato l’allora giovane Barack alla Chiesa cattolica, prima di distanziarsene dopo aver constatato che il tempo della lotta era terminato.

Compare più volte, nell’articolo, il nome del cardinale Joseph Bernardin, già arcivescovo di Chicago fino al 1996 e considerato l’elemento di punta del progressismo post-conciliare americano. Bernardin che Obama, parlando alla Notre Dame University nel 2009, definì “un faro e un crocevia”, capace di “avvicinare le persone e trovare un terreno comune”.  L’esatto opposto del suo successore, il cardinale Francis George, considerato capofila dei quei conservatori muscolari che hanno sferrato dai pulpiti la battaglia per affermare il Vangelo della vita così come ridefinito da ultimo da Giovanni Paolo II nella Evangelium Vitae. Assume particolare rilevanza il fatto che tra pochi mesi il Papa sceglierà il successore di George alla cattedra episcopale di Chicago. Il profilo del nuovo arcivescovo chiarirà meglio l’idea che ha Francesco della Chiesa americana, a seconda che propenda per un continuatore dell’attuale linea o che torni a quella tracciata da Bernardin.

Tra Obama e l’episcopato americano i rapporti sono stati fin dal principio più che freddi. Un gelo iniziale che ha ben presto lasciato lo spazio a una lotta pubblica con tanto di manifestazioni e cortei organizzati per protestare contro i provvedimenti liberal del governo federale. Nel 2008, l’allora presidente della conferenza episcopale statunitense, il cardinale George, ammoniva i fedeli cattolici sulla possibilità di mandare alla Casa Bianca un candidato abortista, schierandosi così con il repubblicano (ma non cattolico) John McCain. Era la conferma del posizionamento assunto già con George W. Bush e derivante dall’alleanza tra Giovanni Paolo II e Ronald Reagan che aveva portato l’elettorato cattolico americano a riconoscersi nel Grand Old Party piuttosto che nel Partito Democratico. I rapporti si fecero ancora più tesi con l’elezione, nel 2010, dell’arcivescovo di New York Timothy Dolan alla guida dei vescovi d’America. Conservatore e determinato a proseguire la linea-George, Dolan riuscì – a sorpresa – ad avere la meglio sul favorito Gerald Kicanas, vescovo di Tucson e vicepresidente uscente. La prassi, infatti, vuole che la presidenza vada a chi nel triennio precedente ha ricoperto la seconda posizione nella gerarchia. Ma su Kicanas pesava il fatto di essere stato ausiliare di Bernardin a Chicago. Troppo spostato a sinistra, dunque, per un episcopato in trincea. 

Lo scorso novembre, però, Obama aveva sorriso. L’era Dolan era finita, e al suo posto era stato eletto mons. Joseph Kurtz, vescovo di Louisville. Unanimemente considerato uomo moderato e più adatto di altri (su tutti, mons. Charles Chaput, battagliero arcivescovo di Philadelphia) a recepire le nuove priorità introdotte nell’agenda della chiesa universale da Francesco. Ma la speranza è andata presto delusa. Già a dicembre, in una lettera inviata alla Casa Bianca, il neopresidente dei vescovi americani contestava a Obama la riforma sanitaria e in particolare l’obbligo di sottoscrivere le polizze assicurative anche per gli enti cattolici. Assicurazioni che coprono anche le pratiche contraccettive e l’aborto. Mons. Kurtz accusava il presidente di firmare e sostenere leggi che violavano il diritto costituzionale alla libertà, “First freedom”. Era il segno che la linea dell’episcopato continuava a essere quella di trincea, che nulla era mutato rispetto alla politica impressa da George e poi da Dolan. E infatti Obama tentava nuovamente di spostare l’asse sul terreno sociale, guardando sempre più a Francesco per contenere i battaglieri vescovi conservatori, sostenuti a Roma anche da figure di primo piano della curia, come il cardinale canonista Raymond Leo Burke. 

Fino a oggi, però, il gioco di sponda con Francesco non ha funzionato, anzi. Lo scorso 22 gennaio, il Pontefice lanciava su Twitter un messaggio in inglese per sostenere la quarantunesima Marcia per la Vita di Washington. Un appuntamento particolarmente rilevante, anche perché ricordava la sentenza Roe vs. Wade con cui nel 1973 la Corte Suprema legalizzò l’aborto. “Possa Dio aiutarci a rispettare ogni forma di vita, in particolare i più vulnerabili”, si poteva leggere sul profilo ufficiale del Pontefice. Concetto più ampiamente ribadito solo qualche giorno fa ricevendo in Vaticano i partecipanti alla Plenaria degli operatori sanitari. D’altronde, quanto Francesco doveva dire sull’aborto l’aveva messo nero su bianco nella Evangelii Gaudium: “Frequentemente per ridicolizzare allegramente la difesa che la chiesa fa delle vite dei nascituri, si fa in modo di presentare la sua posizione come qualcosa di ideologico, oscurantista e conservatore. Eppure – scriveva ancora Francesco – questa difesa della vita nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano. Se cade questa convinzione, non rimangono solide e permanenti fondamenta per la difesa dei diritti umani, che sarebbero sempre soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno”. Nessuna apertura, dunque, alle “modernizzazioni” da più parti invocate, dal momento che “non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana”. Un messaggio più che chiaro.