Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Venerdì Santo a cura di Ermes Dovico
UN TOUR SCONCERTANTE

Obama l'africano fa l'ambasciatore dei diritti gay

Seconda visita del presidente americano in Africa, contrassegnata dal pressante appello a favore degli omosessuali. Nessun accenno ai veri problemi dei diritti umani, né alcun riferimento al discorso che fece in Ghana nel 2009. In quattro anni l'Africa non è cambiata, Obama sì. In peggio.

Esteri 01_07_2013
Obama con il presidente senegalese Sali

Nel suo secondo viaggio in Africa da presidente, Barack Obama, appena atterrato a Dakar, Senegal, non ha perso tempo e, durante la conferenza stampa svoltasi il 27 giugno presso il palazzo presidenziale, ha subito affrontato l’argomento che gli stava a cuore: non la Cina che fa man bassa delle risorse naturali del continente né il dilagare del terrorismo islamico o le stragi dei cristiani, bensì i diritti dei gay. A sorpresa, senza cioè averne informato prima il suo ospite, il presidente Macky Sall, nel corso del precedente incontro privato, Obama ha affrontato la questione elogiando la Corte Suprema degli Stati Uniti per la sentenza emessa il giorno precedente contro la legge federale che riconosce solo i matrimoni tra persone di sesso diverso. Ha quindi definito la sentenza “una vittoria per la democrazia americana” e ha esortato tutti paesi africani a porre fine alle discriminazioni contro gli omosessuali. Ha poi spiegato di aver deciso di affrontare l’argomento senza preavviso per l’importanza e l’urgenza di lanciare un messaggio agli africani affinché, pur nel rispetto delle diverse convinzioni culturali e religiose in merito all’omosessualità, accettino di abolire ogni discriminazione legale nei confronti dei gay: “Per quanto riguarda il modo in cui lo stato e la legge trattano i cittadini – ha aggiunto dopo aver paragonato la lotta per i diritti dei gay in Africa a quella dei neri per i diritti civili negli Stati Uniti – ci deve essere parità per tutti”.

La risposta del presidente Sall è stata ferma e decisa: il nostro è un paese molto tollerante, ha replicato, non siamo omofobici, ma “non siamo ancora pronti a depenalizzare l’omosessualità” e non accettiamo pressioni esterne.

Se Obama ha voluto dare risalto ai diritti dei gay rispetto ad altre questioni, altrettanto ha fatto Amnesty International che, a sua volta, lo ha esortato ad approfittare del suo viaggio africano per protestare apertamente contro il modo in cui gli omosessuali sono considerati nel continente: e non contro il modo in cui, ad esempio, vengono trattati gli albini, discriminati, ostracizzati, uccisi a centinaia ogni anno e smembrati dagli stregoni per confezionare pozioni magiche soprattutto in Tanzania, ultima tappa del tour presidenziale; non contro le mutilazioni genitali femminili, inflitte ogni anno a due milioni di bambine; non contro le discriminazioni etniche e religiose che avvelenano la vita politica e sociale ovunque.

Per il resto, il viaggio del presidente degli Stati Uniti differisce dal precedente, in Ghana, nel 2009, per un’accoglienza sostanzialmente tiepida se non fredda, la scarsa partecipazione popolare all’evento e, in Sudafrica, per la contestazione da parte di un gruppo di giovani respinti dalla polizia con lacrimogeni e proiettili di gomma: la disillusione – “è nero, ma si comporta come tutti gli altri”– si accompagna a critiche ponderate. Lo stesso presidente sudafricano Jacob Zuma ha si lodato Obama paragonandolo a Nelson Mandela – entrambi sono stati i primi presidenti neri dei loro paesi, ha osservato, e perciò hanno realizzato i sogni di milioni di oppressi – ma non ha mancato di sottolineare le differenze in politica estera tra Stati Uniti e Africa rimarcando come l’ascesa dei gruppi armati islamici in Mali e nel resto dell’Africa Occidentale sia il risultato della caduta di Gheddafi di cui gli Stati Uniti sono stati gli artefici.

Ma la differenza più significativa, abissale, è data dall’atteggiamento assunto da Obama, dai suoi discorsi. Nel 2009 ad Accra aveva pronunciato un discorso memorabile di cui merita riportare oggi i passi più incisivi.

“Noi dobbiamo partire dal principio che spetta agli Africani decidere sull’avvenire dell’Africa” aveva esordito e le sue parole erano state accolte da applausi scroscianti. Non così il seguito.

“Mio padre – aveva continuato Obama, figlio di un kenyano – è cresciuto in un momento di promesse straordinarie per l’Africa. Le lotte della generazione di suo padre avevano fatto nascere dei nuovi Stati. Gli Africani si istruivano e si affermavano in modo nuovo. La storia era in marcia. Tuttavia, malgrado i progressi fatti – e ci sono stati progressi considerevoli in certe parti dell’Africa – sappiamo che questa promessa è ancora lontana dall’essersi realizzata. Paesi come il Kenya, il cui reddito pro capite era superiore a quello della Corea del Sud quando io sono nato, sono stati superati di gran misura. Guerre e malattie hanno devastato molte regioni del continente africano. In molti paesi la speranza della generazione di mio padre ha ceduto il passo al cinismo, addirittura alla disperazione. Certo è facile puntare il dito e scaricare la responsabilità di questi problemi sugli altri.  E’ vero che una carta geografica coloniale che non aveva alcun senso ha contribuito a suscitare dei conflitti, e che l’Occidente ha spesso trattato l’Africa con condiscendenza,  alla ricerca di risorse piuttosto che di cooperazione. Tuttavia non è stato l’Occidente il responsabile della distruzione dell’economia  dello Zimbabwe nel corso dei dieci ultimi anni, né delle guerre durante le quali i bambini vengono arruolati come soldati. Durante la vita di mio padre, sono stati il tribalismo e il nepotismo in un Kenya indipendente che, in parte e per lungo tempo, sono stati di ostacolo alla sua carriera e sappiamo tutti che questa forma di corruzione è esperienza quotidiana nella vita di un troppo grande numero di persone.

(...) Nessun paese può creare ricchezza se ha dei dirigenti che sfruttano l’economia per arricchirsi personalmente, o se i suoi poliziotti possono essere comprati dai trafficanti di droga. Nessuna impresa investe in un paese dove il governo pretende all’avvio un 20% o nel quale il capo dell’autorità portuaria è corrotto. Nessuno può vivere in una società dove la regola del diritto cede il passo alla legge del più forte e alla corruzione. Questa non è democrazia, è tirannia, anche se di tanto in tanto si tiene un’elezione qui e là, ed è arrivato il momento che questo tipo di governo sparisca”.

Obama aveva  concluso il suo discorso ammonendo che lo sviluppo dipende dal buon governo: “Una responsabilità che ricade soltanto sugli africani”.

Nessuna traccia di tutto questo si trova nelle parole pronunciate in questi giorni in Senegal e in Sudafrica, benché l’Africa che oggi lo accoglie sia la stessa di quattro anni fa, con in più la minaccia destabilizzante del terrorismo e con un nuovo presidente, Uhuru Kenyatta, in Kenya, indagato dalla Corte penale internazionale. Preoccupato di “partecipare al futuro del continente” insieme a Cina, India e Brasile, ha invece rivolto parole concilianti ai leader africani, complimentandosi per i traguardi raggiunti: “Questo è un grande momento per il continente – ha detto durante la conferenza stampa a Dakar – troppo spesso il mondo ignora i sorprendenti progressi che l’Africa sta compiendo, inclusi quelli nel rafforzamento della democrazia”. Esempi di “sorprendenti progressi” non ne ha fatti: non avrebbe potuto.