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FESTA TRISTE

Primo maggio senza senso: il governo ha abolito il lavoro

Oggi festa del primo maggio quanto mai retorica, perché la dignità di moltissimi lavoratori è stata calpestata dall’ideologia “chiusurista” e la popolazione è spaccata tra garantiti e non garantiti. Che senso ha festeggiare il lavoro visto che il lavoro si è immolato sull’altare della lotta alla pandemia e milioni di italiani hanno dovuto rinunciarvi?

Politica 01_05_2021

In epoca di pandemia molte libertà democratiche sono state sospese in maniera irragionevole e prolungata. In tanti lo denunciano da tempo, aggrappandosi anche ad alcune benauguranti pronunce di tribunali che hanno bocciato le sanzioni inflitte ai cittadini per violazioni delle misure anti-pandemia. Si tratta, secondo alcuni giudici, di norme a rischio incostituzionalità, anche perché emanate, almeno fino al governo Conte 2, con strumenti giuridici impropri come i dpcm, che bypassano il Parlamento e accentrano i processi decisionali a Palazzo Chigi.

Tra i diritti certamente menomati in questo anno di Covid c’è senz’altro quello al lavoro, negato a molti e senza adeguati ristori né garanzie di alcun tipo.

Oggi, quindi, la festa del primo maggio diventa quanto mai retorica, perché la dignità di moltissimi lavoratori è stata calpestata dall’ideologia “chiusurista”. L’art.1 della nostra Costituzione dice che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro, con tutto ciò che ne consegue in termini di difesa a oltranza della dignità di chi offre lavoro, cioè in primo luogo le imprese, e di chi lo svolge, i lavoratori di tutti i settori, sia dipendenti che autonomi.

L’art.36 della nostra Carta Costituzionale aggiunge poi che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

Con queste premesse appaiono ancora più forzate e inopportune le politiche portate avanti dai governi di mezza Europa e di molti Stati extraeuropei fondate su sospensioni di attività professionali e commerciali senza congrui ristori e senza la garanzia di riaperture certe e in sicurezza. La pandemia ha fomentato l’idolatria del diritto alla salute, che tuttavia si è ridotto alla difesa dal contagio da Covid, trascurando ogni altra patologia e sacrificando ogni altro diritto o interesse dell’essere umano e della società.

Il tempo sospeso sembra un tempo ormai eterno, perché dai discutibili parametri di misurazione della diffusione del virus si determinano le decisioni che attengono alla libertà personale, senza peraltro evidenze scientifiche.

E allora che senso ha festeggiare oggi il primo maggio, visto che il lavoro si è immolato sull’altare della lotta alla pandemia e milioni di italiani hanno dovuto rinunciarvi senza poter continuare a vivere una vita economicamente dignitosa?

La popolazione italiana è ormai nettamente spaccata tra garantiti e non garantiti, tra quanti possono godere di un reddito mensile a prescindere dal fatto di lavorare o meno, e di una pensione, e quanti non stanno guadagnando nulla o quasi e sono in balìa delle decisioni governative sulle riaperture.

Nelle ultime settimane, nonostante l’allentamento delle misure, si sono moltiplicate le manifestazioni di protesta di intere categorie che non ce la fanno più e che chiedono solo di poter lavorare, non chiedono sussidi o elemosine, ma solo di poter lavorare e questo diritto continua ad essere loro negato dal governo.

La tardiva adozione di protocolli per far riaprire in sicurezza molte attività produrrà altri fallimenti di imprese medie e piccole e imporrà forti cure dimagranti anche alle grandi realtà imprenditoriali, che presto si ristruttureranno a spese dei lavoratori, non appena si supererà il blocco dei licenziamenti.

Un’altra ragione che rende alquanto retorica la celebrazione di oggi, che invece avrebbe avuto senso se si fosse potuto celebrare il massiccio ritorno al lavoro di tutti gli italiani dopo gli estenuanti lockdown, è l’agonia delle sigle sindacali.

Un tempo in piazza il primo maggio scendevano milioni di lavoratori sotto le insegne di Cgil, Cisl e Uil, per rivendicare i diritti dei lavoratori e festeggiare le conquiste sino ad allora ottenute. Lentamente la triplice ha perso terreno e, soprattutto, ha ceduto spazi di rappresentanza sindacale ad altre sigle come i Cobas e gli autonomi. La frantumazione delle associazioni di lavoratori è alla base del progressivo indebolimento del loro potere negoziale e della credibilità delle loro battaglie. Finita la pandemia, dalle macerie della storia sindacale dovrà nascere una nuova concezione del lavoro fondata sul merito, sulla libertà d’impresa, sulla valorizzazione della creatività imprenditoriale e sulla maturità e il senso di responsabilità dei lavoratori.

Intanto, però, molti di loro oggi si sentono beffati perché hanno ben poco da festeggiare e devono fermarsi a riflettere sul lavoro che hanno perso, anche a causa delle politiche chiusuriste che stanno massacrando intere categorie e provocando una crisi socio-economica dai contorni sempre più drammatici.