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il film

Quel che Pupi ci dice sull'amore

Fuori schema 12_02_2021

Pubblico anche qui la recensione dell'ultimo film di Pupi Avati "Lei mi parla ancora", che ho scritto per il Timone on line

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Lunga vita a Pupi Avati che scodella film politicamente scorretti come Lei mi parla ancora, pellicola distribuita da Sky cinema e andata in onda lunedì sera. Tratto dal libro autobiografico Lungo l’argine del tempo: memorie di un farmacista, scritto nel 2014 dall’ultranovantenne Giuseppe Sgarbi, il padre del critico d’arte Vittorio e della regista Elisabetta, è un film elegiaco sull’amore, sui ricordi visti dalle ultime sponde del Po dove la vita scorre senza accorgersene prima di gettarsi nel vasto mare.

Un film che riesce a lasciare il suo solco con leggeri tratti di penna, dialoghi morbidi, parole sussurrate e grandi silenzi. Ma anche a dire una verità sull’amore sponsale che oggi abbiamo ricacciato nel cestino, dopo lo sfacelo lasciato dalle rivendicazioni, la solitudine del disincanto, dopo il grande inganno delle autodeterminazioni e i cosiddetti diritti conquistati: il matrimonio è un mistero sacro, che eterna le anime che lo vivono. I ricordi che lasciamo qua sulla terra sono la cifra di questo amore, il tratto del nostro passaggio sulla terra. Romperlo equivale a spezzare questo ricordo.

Ecco la grandezza del regista bolognese: raccontare una grande verità con pochi cenni di poesia, senza clericalismi e senza moralismi e se in gioco c’è l’amore umano, declinato nel suo aspetto coniugale, con pochissimi tocchi arriva direttamente allo spettatore.

La trama è quanto di più semplice e provinciale vogliamo, ma è il suo bello. Dopo la morte della moglie Rina (Stefania Sandrelli-Isabella Ragonese), il farmacista Nino (Renato Pozzetto-Lino Musella) non si rassegna alla perdita della sposa. La figlia (Chiara Caselli) ingaggia così uno scrittore in crisi per aiutare il padre a mettere per iscritto i ricordi della sua vita in modo da sublimarli. E distaccarsi così dal tedio che sta vivendo dopo la morte.

Ne esce un rapporto in cui i protagonisti, Renato Pozzetto e Fabrizio Gifuni, sono due mondi incompatibili per vita e scelte famigliari, ma che nei ricordi di Nino con la sua Rina si avvicinano fino a vivere empaticamente gli stessi sentimenti.

Ma questo non è un film per chi si accontenta dell’amore tra marito e moglie senza lasciarsi interrogare su che cosa sia un matrimonio, senza scuotersi su come il matrimonio oggi sia relegato a scelta di serie B, incrostatosi sugli scogli dell’egoismo e della paura.

Per capirlo basta una sola frase, quella pronunciata da Nino quando dice ad Amicangelo (Gifuni) che «portare avanti una relazione non è una cosa facile, però provarci e riuscirci dovrebbe avere un valore misterioso, sacrale». Grande verità, quella di Pupi: mostrare l’aspetto sacrale del matrimonio, un roveto ardente entro cui entrare in punta di piedi, un’unione che Nino e Rina decisero fin dal giorno del matrimonio di vivere con il sigillo di eternità. «Alla vigilia del cambiamento della sua vita la giovane Caterina scrisse una lettera al suo futuro sposo. In quella lettera gli prometteva che dandosi reciproco e infinito amore sarebbero stati immortali. Immortali in tutti i luoghi e in tutte le stagioni», si racconta all’inizio per descrivere il tipo di amore vissuto nella realtà dal vecchio Sgarbi e da sua moglie, ma che è il marchio di ogni unione, di ogni matrimonio, senza il quale non vi è alcun amore.

L’aspetto del tempo che passa e dei ricordi da fissare in un libro o anche solo da raccontare davanti a un piatto di cappelletti taglia grande mangiati in una sera feriale qualunque (per noi che viviamo tra la via Emilia e il west i cappelletti sono eternamente festa) è nella frase di Pavese che chiude il film: «L’uomo mortale non ha che questo di immortale: il ricordo che porta, il ricordo che lascia».

Si scorge molto del maestro bolognese, ma sbaglia chi ha bollato il film come una pellicola sulla vecchiaia. Tutt’altro: è un film giovanile, che vuole riportare l’amore del matrimonio alla sua freschezza originaria, alla sua purezza non inquinata da anni e anni di ideologismi tossici. Una purezza fatta anche di sacrifici e di lotte, di pensieri strozzati ma non per questo meno vera. Non si può non immedesimarsi nel vecchio Renato Pozzetto e nella sua placida nostalgia. E probabilmente c’è molto anche di Avati, che proprio qui, al Timone, al termine del lockdown aveva confidato di aver scoperto la straordinaria forza della moglie. Ma c’è anche una risposta al dilemma di Gaber nel mistero di un uomo e di una donna che «scelsero la morte, per una cosa vera come la famiglia». Il film non piacerà a chi crede che in fondo l’amore sia passeggero. Ma, comunque, non potrà non lasciarsi interrogare.