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Quel che resta del docufilm

Quel papa con le élite che non si china sulle famiglie

La sconfortante immagine che ci consegna il docufilm "Francesco" è quella di un pastore attento ai capricci dei falsi discriminati gay, ma che dimentica le famiglie.

Gender Watch 26_10_2020

La frase di Papa Francesco sulle unioni civili si accompagna a un’immagine che gli è strettamente connessa nel docufilm del regista Evgeny Afineevsky. E’ quella in cui Bergoglio si fa vicino in un qualche modo a Andrea Rubera e il suo compagno Dario Di De Gregorio. Di loro conosciamo gli intenti militanti, sappiamo le idee bislacche sul concetto di maternità come concetto antropologico e persino sappiamo che ricorrendo all’estero  all’utero in affitto, un peccato pubblico esibito, hanno commesso quello che sarebbe un reato nel nostro Paese, che è il paese dove vivono.

L’immagine che il docufilm trasmette però è quella di un Papa Francesco che avvalora questo peccato, che è quello di fabbricarsi a piacimento i figli ricorrendo alla gestazione per altri o utero in affitto: un problema etico e pedagogico gigantesco mentre lo spettatore si fa l’idea di un Papa che si china, consola una falsa vittima di una falsa discriminazione come Rubera & Di Gregorio vogliono apparire. Vogliono essere famiglia, ma famiglia non possono essere: la simpatia mostrata dal Papa avvalora questo corto circuito.

Il motivo del contendere è la lamentela dei due di frequentare coi figli la parrocchia. Ma in parrocchia a fare cosa? I catechisti? Gli allenatori? Il Papa non entra nel merito della richiesta, ma lascia correre e gli dice di andarci. Dalle parole che pronuncia non si cura minimamente di capire se il desiderio di frequentare la parrocchia sia o no funzionale a far sì che quei bambini vivano una vita cristiana retta e serena.

Eppure, di loro si parlava già abbondantemente nel 2017 e sulla loro presunta difficoltà a farsi accettare in parrocchia l’inganno lo avevamo scoperto subito. In questo articolo pubblicato nel 2017 mostravamo che i due in parrocchia c’erano già entrati. Come? Con un articolo di tre pagine sul bollettino parrocchiale della Santissima Trinità a Villa Chigi dove Di Gregorio e Rubera avevano potuto raccontarsi diffusamente e definire in questo modo le donne che hanno offerto (?) l’utero per loro: “Le donne che si offrono per aiutare altre persone a diventare famiglia sono un po’ come degli angeli. Lo fanno solo per spirito di servizio e anche perché trovano congeniale la dimensione della gravidanza”. Benefattrici dunque, per le quali ogni compenso economico ovviamente è escluso, quando sappiamo invece che l’utero in affitto è un vero e proprio business.

Ma i due, nel pretendere un’accoglienza in parrocchia volevano che anche a loro la Chiesa offrisse percorsi di coppia tarati sulle loro esigenze: un’accettazione dell’omosessualità di coppia però avrebbe voluto dire che la Chiesa riconosceva il valore di famiglia anche alle coppie omosessuali. Bè, ora ci siamo arrivati proprio perché certe parrocchie e certe diocesi, vedi nella Albano del nuovo prefetto dei Santi Semeraro, hanno dato spazio a questi percorsi e nessuno, dal Papa al vicario di Roma a qualunque altro vescovo italiano, ha mai denunciato questa impostura omoeretica portata in Chiesa. Dunque, dov’è la discriminazione? Semplicemente non c’è.

Papa Francesco non sembra minimamente curarsi dello scandalo che questo comporterà nel corso del tempo. Ma non si sta curando neppure di quelle che sono le ricadute che questa immagine avrà su tutte le famiglie – queste sì, vere - che sono aperte alla vita, feconde e fedeli e che hanno 2-3-4-6 figli e non hanno avuto mai l’onore di essere ritratte in un documentario col Papa né si sono mai sentite dire da lui che la violenza che gli stati sempre più atei stanno facendo per minare le loro basi (col divorzio, con l’aborto etc…) è una catastrofe umanitaria ben peggiore di quelle ambientali che ci vogliono propinare: è la catastrofe di un’umanità che odia se stessa e che vede nell’unione di uomo e donna aperti alla vita il principale ostacolo per realizzare il suo fine distruttivo e l’autoaffermaizone dell’individualismo nichilista che l’omosessualismo sposa.

Avremmo voluto vedere volentieri col Papa una mamma e un papà con i loro figli in braccio. Sconosciuti e non militanti, che rispondessero alla sua telefonata, ci saremmo commossi nel vedere il vicario di Cristo chinarsi davvero sulle ferite delle famiglie che sono infinitamente più dolorose delle false discriminazioni subite da militanti della causa gay che non sono popolo, ma élite.

Rubera è elite, di Gregorio è elite e tutti quelli che assecondano questo inganno sono élite perché hanno il favore dei media, della politica mondiale, delle grandi organizzazioni internazionali e ora anche del Papa. Le elite sono ricche e privilegiate, il popolo invece è più modesto e trascurato, infatti di loro e del loro rapporto con il pontefice, che pure si sarebbe potuto trovare, il capolavoro del regista omosessualista non si occupa perché il messaggio che doveva passare era un altro.

Era quello delle elite spacciate da vittime. Su di loro invece, le famiglie, che pure sono popolo e pure sono ancora la maggioranza, il Papa non mostra di chinarsi. E dopo aver già chiarito che non devono fare figli come conigli lascia che passi il concetto indiretto che potrebbero fabbricarsi i loro figli in provetta tanto a Dio va bene così. Tutto questo provoca dolore nel constatarlo e nello scriverlo.

Ma la sofferenza più grande è constatare che il Papa si presta a farsi prossimo a quel mondo che con inganno e violenza (perché l’omosessualismo è anche una dittatura) schiaccia le famiglie naturali che vengono così irrise e calpestate dagli stati e dalla società con politiche sempre più vessatorie e umilianti sul fronte della vita, della tassazione, della fedeltà coniugale, dell’etica educativa, della libertà di istruzione e della tutela della fragilità quando ci sono handicap o anziani. E sul fronte della lotta finale tra Dio e satana proprio come rivelato da Suor Lucia al cardinal Caffarra l'ultima battaglia sarà sulla famiglia»).

Per usare una metafora molto amata a Santa Marta: se davvero c’è un ospedale da campo, allora esiste una moltitudine di malati che non vengono raggiunti dalle cure, mentre si danno solo placebo ai pochi malati immaginari che fanno la voce più grossa.