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TV

Rai: o si riforma o si privatizza

Uno spot in circolazione per convincere a pagare il canone, esalta la quantità della programmazione Rai a fronte di un costo bassissimo. Ma evita il discoso sulla qualità dei programmi. Il problema sta nella governance, che richiede una grande riforma.

Politica 26_05_2014
Rai

La Rai sta mandando in onda uno spot sul canone che suggerisce alcune riflessioni sulla tv pubblica. Lo scopo è quello di richiamare l’attenzione degli abbonati sul dovere di versare la tassa annuale, proponendo una comparazione con altri Stati: il canone in Italia è il più basso d’Europa, i servizi offerti sono superiori a quelli delle altre tv di Stato mentre la percentuale di cittadini che non versano quanto dovuto allo Stato per il possesso del televisore è più elevata che nel resto del Vecchio Continente.

Da anni ci si interroga sulle modalità più efficaci di lotta all’evasione fiscale sul versante del canone Rai. C’è chi suggerisce di farlo pagare a consumo, chi vorrebbe agganciarlo alla fornitura di energia elettrica per costringere tutti gli italiani a pagarlo. Nessuno, però, si sgancia da questa visione meramente quantitativa del rapporto tra tv pubblica e servizi ai cittadini.

E’ certamente vero che il canone italiano è in alcuni casi pari a un terzo di quello di altri Stati; è innegabile che dal punto di vista numerico i servizi offerti agli utenti sono maggiori di quelli di altre tv di Stato. Bisognerebbe, però, ragionare sulla governance della tv pubblica e sulla qualità della sua programmazione. La Rai può vantare un archivio davvero preziosissimo, che costituisce un patrimonio inestimabile per l’Italia. Se si eccettua, però, quest’archivio, non si afferma nulla di particolarmente originale se si denuncia il progressivo scadimento dei programmi (informativi e non) delle tre reti Rai e la povertà di contenuti proposti sugli altri canali (in larga parte tematici) nati in seguito alla digitalizzazione delle trasmissioni. Il tutto con l’aggravante di una scarsissima interazione con gli utenti e di una scientifica politicizzazione delle scelte di governance e delle nomine dei vertici manageriali e giornalistici.

Non appena la politica registra scossoni o rimescolamenti di carte, in automatico la Rai vive fibrillazioni che molto poco hanno a che fare con il concetto di servizio pubblico.

Nomine al Tg1 e al Tgr, approvazione del piano fiction, battaglia sui finanziamenti per le nuove produzioni, ma sullo sfondo rimane il nodo decisivo per la qualità del servizio pubblico: la governance della Rai.

Il premier Renzi ha già deciso di mettere sul mercato RaiWay e ha “frustato” i dirigenti e i giornalisti Rai avvertendoli che la scure della “spending review” si abbatterà anche sulle loro teste (e sulle loro tasche). Riuscirà il Presidente del Consiglio a fare quello che nessun governo è riuscito a fare, cioè imporre una cura dimagrante alla tv pubblica tagliando rendite di posizione ormai inaccettabili in un’epoca di austerità economica e razionalizzando i costi e le spese di gestione delle redazioni, anche di quelle regionali? 

Se, come è lecito pensare, questo tentativo non andrà a buon fine, al premier non resterà altra strada che mettere sul mercato la tv pubblica, rispolverando l’idea, già contenuta nella legge Gasparri (2004), di privatizzarne una porzione consistente.

Un’ipotesi del genere sarebbe comunque l’ammissione del fallimento di un progetto di tv pubblica al servizio di tutti i cittadini e dialogante con loro sul modello della Bbc inglese, che, al contrario della Rai, interpella costantemente il Comitato degli utenti sui contenuti dei palinsesti e sulla qualità dei programmi da mettere in onda.

In Italia, certo perbenismo benpensante di porzioni cospicue di classe politica e di operatori del settore ha prodotto solo l’emanazione di Codici di autoregolamentazione, assolutamente ignorati nella pratica (basti pensare a quello del 2009 sui processi mediatici) e sacrificati sistematicamente sull’altare dell’audience e dei fatturati pubblicitari.

In Inghilterra violazioni palesi del patto sottoscritto ogni anno dalla tv pubblica con gli utenti comporterebbero reazioni ferme e decise e imporrebbero una sterzata al broadcaster.

Non resta che da chiedersi se possa esistere una strada virtuosa per garantire che l’influenza della politica non equivalga ad un’ingessatura paralizzante per un’azienda come la Rai. Perché i bizantinismi imbrigliano da oltre trent’anni la vita della tv di Stato impedendo che ad emergere siano le energie migliori, le idee più innovative, i soggetti più meritevoli, sia in ambito di governance che giornalistico?

Ricordiamo che la governance della Rai è regolata dalla legge Gasparri del 2004, poi inglobata nel Testo unico della radiotelevisione del 2005, infine diventato Testo unico dei servizi di media audiovisivi, a seguito dell’emanazione del decreto Romani (d.lgs. 15 marzo 2010, n.44), attuativo della nuova direttiva europea Servizi di media audiovisivi (n.65 del 2007).

Gli indirizzi li detta la commissione parlamentare bicamerale di vigilanza sulla tv pubblica. Il cda è di emanazione politica, sulla base di una ferrea applicazione del “Manuale Cencelli”, non sempre garanzia di competenza e meritocrazia. Il direttore generale viene scelto dai partiti e ne diviene ostaggio. 

In Gran Bretagna, la Bbc è la più grande azienda radiotelevisiva del mondo e funziona sulla base di una chiara indipendenza dalla politica. L’organo esecutivo dell’emittente, l’executory board, non è di nomina governativa ed esiste un’indipendenza economica che è funzionale all’emancipazione dal potere politico. Infatti, l’emittente non riceve soldi dallo Stato e si sostiene solo con il canone.

E’ proprio un’utopia immaginare che in Italia si possa seriamente affrontare il tema della governance Rai a prescindere dalle appartenenze politiche e con un focus esclusivo sulla qualità del prodotto da offrire, sull’innovazione dei servizi da proporre e sull’ottimizzazione delle risorse economiche e umane? E il pubblico, perché non viene coinvolto sul serio anche in Italia quando si definiscono i palinsesti? Forse i cittadini pagherebbero più volentieri quello che oggi giudicano un balzello odioso non ripagato dalla qualità dei servizi offerti.