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ORO NERO

Riad ricatta Mosca per rovesciare Assad

Il crollo improvviso dei prezzi del petrolio non danneggia i maggiori Paesi produttori del Golfo. Danneggia, semmai, sia la Russia che l'Iran, i maggiori sostenitori di Bashar al Assad in Siria. Ed è qui che la strategia saudita appare chiara, alla luce anche dei nuovi attentati islamici in Cecenia: far pressioni su Mosca per indurla ad abbandonare Damasco.

Economia 13_12_2014
Petrolio saudita

Il crollo repentino del prezzo del petrolio ha una portata globale che non risparmia i già precari equilibri nell’area mediorientale. Se il greggio a buon mercato garantisce un importante supporto al rilancio dell’economia dei Paesi importatori di energia, sul piano geopolitico è altrettanto indubbio che alcuni tra i più importanti produttori rischiano la bancarotta.

Non è certo il caso dei Paesi della Penisola Arabica che estraendo greggio a basso costo continuano a mantenere buoni margini di utile con le attuali quotazioni intorno ai 60/70 dollari al barile e continuerebbero a guadagnare anche in caso di crollo a 40 dollari. Diversa la situazione per Nigeria, Venezuela e Iran, che devono all’export petrolifero gran parte del loro bilancio statale e che rischiano il default se le attuali quotazioni dovessero protrarsi a lungo.

Anche l’Iraq, impegnato in una costosa campagna bellica contro lo Stato Islamico rischia serie difficoltà nonostante l’estrazione del suo greggio abbia costi limitati. Le sofferenze maggiori le patisce però la Russia che deve fare i conti con una serie di fattori negativi. Innanzitutto il crollo del prezzo del petrolio penalizza il bilancio della Federazione finanziato per almeno il 50% dall’export energetico mentre l’estrazione del greggio nelle disagiate regioni siberiane ha costi elevati che determinano una forte riduzione degli utili.

Per la Russia il ribasso petrolifero si aggiunge poi alle sanzioni poste da Usa ed Europa in seguito alla crisi in Ucraina. Fattori che contribuiscono a trasformare la leva petrolifera in un potente strumento di pressione per indurre Mosca a modificare la sua politica estera.

Non è un caso che Stati Uniti e Arabia Saudita abbiano trovato, momentaneamente, un rilevante punto d’incontro nel sostenere il ribasso delle quotazioni petrolifere determinato da un lato dagli ingenti quantitativi di “shale oil” estratto in America e dall’altro dalla determinazione di Riad a impedire ai Paesi dell’OPEC di ridurre la produzione globale per far risalire i prezzi.

Superfluo sottolineare che quasi tutti i Paesi che subiscono gli effetti del greggio a buon mercato sono avversari o rivali sia di Washington che di Riad e del resto poco più di un anno or sono proprio i sauditi cercarono di convincere Vladimir Putin ad abbandonare al suo destino Bashar Assad in cambio del sostegno alle quotazioni petrolifere.

Durante l’incontro del 31 luglio 2013 tra il presidente russo e il principe Bandar bin Sultan, all’epoca a capo dell’intelligence saudita, Riad offrì a Putin un accordo di cartello per mantenere alto il prezzo del greggio e favorire così l’economia russa in cambio dello stop agli aiuti e al sostegno politico a Bashar Assad. Bin Sultan avrebbe anche promesso di salvaguardare la base navale russa di Tartus anche dopo la caduta del regime di Assad ma, insieme alle offerte, avrebbe anche minacciato di scatenare i terroristi islamici ceceni e caucasici (wahabiti sostenuti da ambienti sauditi) durante le Olimpiadi invernali di Sochi.

Mosca non solo respinse la proposta ma ne fece trapelare il contenuto alla stampa come raccontò anche La Nuova Bussola Quotidiana. La domanda da porsi è quindi se oggi, col rublo e la borsa di Mosca a rotoli, Putin potrà ancora permettersi di rifiutare quella proposta o non si trovi invece costretto a barattare il regime di Assad con un taglio della produzione saudita che riporterebbe oltre i 70/80 dollari il costo del barile.

Sul fronte interno Putin gode di un ampio consenso popolare (oltre l’80%), grazie anche alla “sindrome da accerchiamento” che vive attualmente la Russia, ma pragmaticamente è difficile valutare quanto possa reggere a un serio e prolungato peggioramento delle condizioni economiche della Federazione.

I segnali della “vendetta” saudita (e statunitense) certo non mancano ed è difficile leggere in modo diverso l’improvvisa fiammata del terrorismo islamico ceceno che dopo tanto tempo ha ripreso a colpire in modo spettacolare il 4 dicembre con un’incursione a Grozny dei miliziani islamici dell’Emirato del Caucaso del Nord che hanno scatenato una battaglia nel centro della capitale cecena in cui sono morti 14 poliziotti e 10 jihadisti. Un attacco scatenato non a caso il giorno in cui Putin teneva il discorso alla Nazione e rivendicato dall’Emirato con un video registrato da cellulare durante le varie sparatorie e diffuso da Kavkavcenter, sito vicino ai ribelli. E’ importante sottolineare che una ripresa in grande stile del terrorismo islamico nel Caucaso minaccerebbe anche il Daghestan, repubblica della Federazione Russa che grazie ai giacimenti di petrolio sta diventando una sorta di “Kuwait del Caucaso”. 

Gli indizi per ipotizzare dure pressioni saudite su Mosca mirate a facilitare il crollo di Assad non mancano e vanno accomunate con le posizioni recentemente ribadite da Riad e Washington circa la necessità di eliminare il regime di Damasco per poter combattere con successo lo Stato Islamico. Posizioni quanto mai arbitrarie considerato che le forze siriane costituiscono il più serio avversario militare del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi ma che indicano chiaramente quali siano i veri scopi della Coalizione sorta ufficialmente per combattere i jihadisti. 

Il “ricatto petrolifero” attuato nei confronti di Mosca riveste una valenza analoga anche per l’Iran, l’altro grande sponsor in termini di aiuti economici e militari di Bashar Assad. Come era inevitabile il governo siriano si preoccupa di un possibile cedimento dei suoi sostenitori. Con l’obiettivo di tranquillizzare l’alleato, Putin ha inviato mercoledì a Damasco il vice ministro degli Esteri, Mikhail Bogdanov, che ha incontrato anche il presidente Assad. La Russia si è offerta di mediare tra governo e opposizioni siriane e a questa iniziativa è da legare la recente visita a Mosca dell’imam sunnita Ahmad Moaz al-Khatib, leader della “Coalizione nazionale siriana delle forze dell'opposizione e della rivoluzione”, organismo riconosciuto dalla comunità internazionale ma sempre meno rilevante sul piano militare. 

Anche se un negoziato avesse successo (ma Damasco esclude che Assad lasci il potere) potrebbe non determinare un reale riscontro sul campo di battaglia ormai dominato sul fronte dei ribelli dalle milizie dello Stato Islamico e dai qaedisti del fronte al-Nusra. Le uniche forze in grado oggi di approfittare di un eventuale collasso del regime.